domenica 31 gennaio 2010

la gatta di schrödinger

da quando è tornata a mondo malgrado, noraneko ha consultato sciamani e stregoni, sacerdotesse e guaritrici, per scoprire l’origine del suo male. l’hanno osservata, visitata e analizzata, e infine tutti le hanno detto di rivolgersi allo sciamano che vive oltre il monte d’acciaio, specializzato in malattie incurabili. noraneko ha chiesto, e lui cura le malattie incurabili? no, le è stato spiegato, una malattia incurabile è per definizione incurabile: lui ti dice solo se ce l’hai. ma se poi non la cura, non ha molto senso andarci, ha osservato noraneko. ma così si sa se si è incurabilmente malati o no, è stata la risposta. bella fregatura, ha pensato noraneko.
c’è stato un tempo, quando era troppo giovane, in cui noraneko voleva le risposte. le voleva così tanto, da non soffermarsi a considerare le domande. poi, col passare dei pianeti, ha scoperto che una risposta non serve a niente, se non sai la domanda. e ha anche imparato a portare sempre con sé un asciugamano, e a non farsi prendere dal panico, ma questa è un’altra storia.
nella dimensione in cui ha incontrato gli umani con cui viaggia adesso, ha sentito parlare di un tale schrödinger e del suo gatto. la fisica quantistica non le è mai stata molto chiara: nel posto da cui proviene, l’energia è qualcosa che serve a fare arrosti di gente potenzialmente pericolosa e ad aprire varchi per vicoli che portano in altre dimensioni. però le è chiaro il punto di vista del gatto. chiuso nella scatola, il gatto sa di essere vivo. magari indiscutibilmente seccato, leggermente radioattivo e irritantemente posizionato vicino a del cianuro, ma vivo. lui sa che è senza dubbio vivo, mentre là fuori c’è gente che si fa seghe mentali sul suo essere vivo e morto contemporaneamente. poi arriva qualcuno e apre la scatola.
noraneko, finché rimane nella scatola, è viva. magari è un po’ incasinata con radiazioni e veleni vari, ma la sua realtà è ferma nel momento in cui è viva. se va dallo sciamano, gli dà la possibilità di aprire la scatola. e scoprire se è viva, oppure morta. noraneko di fisica non ha mai capito niente, ma di vita e morte qualcosa ne sa. ergo, noraneko non andrà dallo sciamano.

giovedì 28 gennaio 2010

tempi di cottura

che tra me e manolo fosse finita l’ho capito il giorno che non ha fatto scuocere la pasta. manolo credo sia l’uomo che mi abbia amata di più. era un amore tangibile: era così forte che quasi si toccava, era come l’aria quando è troppo calda o troppo fredda, che diventa quasi solida, la respiri e la senti proprio fisicamente, nel naso, in gola, nei polmoni, e a volte fa male.
comunque io andavo a casa sua e lui cucinava, e poi si perdeva a guardarmi. e regolarmente la pasta si scuoceva. sempre. era una cosa assurda, ma non siamo mai riusciti a trovare un rimedio; e ci scherzavamo su, e ci impegnavamo anche, ma non c’era verso. le alternative erano, o cucinavo io, o si andava a mangiare fuori, o ci si concentrava su ricette che richiedevano qualche ora di cottura. in genere si andava a mangiare fuori, e ogni tanto durante le mie passeggiate per la città bianca incontro tutti i ristoranti dove non sono più voluta entrare, qui è dove abbiamo cenato quella sera che lui si è scordato il bancomat e abbiamo rischiato di dover lavare i piatti, qui è stata la grande abbuffata prima del decreto anti-bistecche, qui ci siamo andati con l’amico di bologna, qui è stato quella volta che, qui invece quando.
poi comunque abbiamo attraversato un brutto periodo e poi un giorno io sono andata a casa sua, lui ha cucinato, io ho assaggiato la pasta e ho detto, non è scotta, e lui ha detto, già, stavolta non è scotta.
e sarebbe potuta finire così e sarebbe stato meglio, un po’ da film magari, però in fondo ci eravamo già detti tutto, e invece abbiamo recitato fino all’ultimo un copione pieno di scene inutili e battute vuote. un bravo regista alla scena della pasta non scotta avrebbe detto stop, buona la prima.
niente, ci pensavo prima mentre cucinavo il riso, parboiled, e mi sono chiesta, ma non potrebbero fare pure la pasta, parboiled? che così, magari.

mercoledì 20 gennaio 2010

poligoni irregolari

nel centro della città bianca c’è una specie di triangolo delle bermuda al contrario. uno dei vertici si trova in una strada abbastanza frequentata; uno, in una via laterale; gli altri, non saprei; e non so nemmeno quanti siano, perché non so se si tratti di un triangolo o di un poligono irregolarissimo, con lati e angoli sparpagliati qua e là a coda di gatto.
quello che so è che lì le persone riappaiono. il tuo migliore amico del liceo; la tua amica che aveva deciso di trasferirsi all’estero col marito; gli amici che erano rimasti inghiottiti dallo scorrere della storia, la loro, la tua, è uguale. passeggi in quella zona e le persone che sono scomparse dalla tua vita all’improvviso sono lì. camminano immerse nei propri pensieri, uno zaino su una spalla, i capelli molto più lunghi e molto più bianchi; si vestono in un altro modo, chiacchierano al cellulare, hanno ancora lo stesso sguardo; sono loro. e non ti vedono. e tu devi far finta di non vederli.
in realtà non ne sei sicura, non sai se questo poligono abbia delle leggi precise da rispettare. ma con gli anni, perché questa storia va avanti da anni, ti sei convinta che sia così. loro non possono vederti, e infatti non ti vedono mai. a te, non sai per quale motivo, è concesso di vedere loro, ma a patto che tu non interagisca. e non ti pesa affatto. in realtà, ti piace che sia esattamente così. ti piace seguirli con lo sguardo, notare come si vestono adesso, come portano i capelli, quanti anni dimostrano, se sembrano preoccupati o felici; una volta, uno, lo hai proprio seguito fisicamente, eri curiosa di vedere dove andava, lo hai osservato entrare in un posto che conosci. ti piace guardarli, saperli ancora vivi, contare gli anni e i ricordi, fare il gioco delle differenze con le immagini passate; ma nient’altro. non vuoi parlare con loro. non vuoi che ti riconoscano. non vuoi che ti vedano. hai già un passato di cui occuparti, ed è il rametto di geranio sul balcone. è bellissimo, e basta così.

lunedì 4 gennaio 2010

quello che non c’è

è da qualche giorno che mi circola tra i neuroni una domanda a cui non riesco a trovare risposta (no, non è la domanda sulla vita l’universo e tutto quanto, quella risposta la so). è che non riesco a capire cosa sia una certa cosa. potrei chiedere alla pecora-drago, ma mi arriverebbe sarcasmo a secchiate. l’albero di natale nano è troppo cinico, il bastone della pioggia e la poltrona verde sono troppo buoni, la possibile risposta di gatto la temo. così ho deciso di fare una cosa un po’ da film (scemo. un po’ da film scemo).
sono uscita. sono passata dalla tabaccaia acida. le ho chiesto un pacchetto di sigarette, la ricarica metrebus, cos’è quella cosa. lei mi ha dato le sigarette, mi ha ricaricato la tessera, mi ha risposto, guarda, a quest’ora di lunedì mattina non ne ho proprio idea. è una cosa che o c’è o non c’è.
una cosa che o c’è o non c’è non è una spiegazione, ho pensato. la maggior parte delle cose che o ci sono o non ci sono, comunque si sa cosa sono.
sono salita sul trenino del far-west, poi sulla metro. mi sono guardata attorno. in effetti a una certa ora di lunedì mattina la gente non dà proprio l’idea di sapere la risposta. prima di entrare in ufficio sono passata dalla barista attonita (la barista attonita è attonita dalla settimana scorsa, da quando mi ha sentita invitare una certa persona ad andare in un certo posto per due volte di seguito. da allora è rimasta in modalità attonita). le ho chiesto un cornetto al cioccolato che dovevo portare a un collega, e poi le ho fatto la domanda. lei mi ha guardata ancora più attonita, poi mi ha detto, mi è dispiaciuto vederti così ferita, l’altro giorno. off topic, ho pensato. però ha risposto il suo collega: è una cosa che o lo sai o non lo sai. lo so, cioè, non lo so, appunto.
mentre stavo entrando nell’edificio ho incrociato uno dell’ufficio marketing. stavo per chiederlo a lui, poi mi sono detta che fare una domanda del genere a uno del marketing sarebbe stato inutile. però, insomma, questo è razzismo, poi non si sa mai, proviamole tutte. allora gliel’ho chiesto. lui ha spalancato gli occhi e mi ha risposto, eehhh? lo sapevo che era meglio lasciar perdere quelli del marketing.
dentro, mi sono trovata davanti misery (misery è una mia capa. dal soprannome si può intuire la magnificenza dei nostri rapporti). ho pensato che anche al provarle tutte c’è un limite. a lei non l’ho chiesto.
poi ho visto fm. una volta, nemmeno troppo tempo fa, fm sarebbe stata la prima persona a cui l’avrei chiesto. forse l’unica. invece oggi l’ho guardato, gli ho sorriso e sono rimasta in silenzio. così va.
dopo un po’ sono uscita a fumare. fuori c’era quello che attualmente detiene il titolo di mio collega preferito. mi ha guardata e mi ha sorriso come mi sorride quasi sempre (se non l’hanno appena fatto pesantemente arrabbiare). l’ho chiesto a lui. lui non si è sorpreso né niente, ha continuato a fumare guardando il parcheggio, poi ha ripetuto piano la mia domanda. gli ho detto, è che mi rispondono o lo sai o non lo sai, o ce l’hai o non ce l’hai, ma nessuno mi spiega cos’è. mi ha detto, perché non ce l’hanno. e quindi non lo sanno. stavo per chiedergli, ma tu...?, poi ho visto la sua espressione stanca mentre dava l’ultimo tiro e spegneva la sigaretta. no. nemmeno lui.