quando mi ha fissato il colloquio non
gli ho mica specificato che soffro di claustrofobia. pensavo, arrivo, salgo le
scale, suono, la segretaria mi introduce nel suo ufficio. non pensavo, lo incrocio
fuori dal palazzo, ci presentiamo, entriamo insieme, chiama l’ascensore, mi tocca entrarci, è pure l’ascensore più lento del
pianeta.
sono chiuse. sono chiusa. e pretende anche di parlarmi.
metà del mio cervello sta esclamando, ehi, è lui, è il
genio, stai a mezzo metro dal genio, stai parlando col genio, se allunghi un
dito puoi toccarlo (tieni le mani a posto).
l’altra metà del mio cervello sta mugolando,
sono chiusa in un ascensore.
un neurone frenetico e disperato sta cercando di rispondere alle sue
domande.
la proiezione di me stessa, quella che è stabilmente
posizionata da qualche parte in alto a destra rispetto a me e mi osserva e mi
giudica, è appoggiata alla parete dell’ascensore, rilassata,
a braccia conserte, e sta commentando, gli hai appena risposto citando una
frase di una canzone degli afterhours, vedi un po’ te.
è iniziata così. anche se no: è iniziato tutto nove
anni fa.