un emigrante resta emigrante per tutta la vita.
continuerà a emigrare, ogni volta che tornerà a casa, ogni volta che lascerà
casa di nuovo, perché il termine casa per lui sarà, nel migliore dei casi,
sdoppiato; quando non annullato, privato di senso.
io mi ricordo un senso di sonno e sicurezza e freddo.
partivamo col treno notturno, io e i miei nonni e mio cugino. la grande
stazione della città in cui si era arrivati come seconda vita era la partenza;
la piccola stazione del paese da cui si era partiti era l’arrivo. a due, tre,
cinque anni è facile che fai confusione, che non ti è molto chiaro se stai
partendo o stai arrivando, se casa la stai lasciando o ci stai tornando. poi, crescendo,
scopri, come per moltissime altre cose, che per gli adulti è uguale.
comunque partivamo col notturno e siccome gli
emigranti emigrano per sempre, avevamo con noi valigie e ceste e buste e borse
e tutto che nemmeno fossimo stati quaranta, e invece eravamo in quattro, a
volte solo tre. e siccome la grande stazione della capitale era davvero troppo
grande e troppo aperta e troppo asettica e troppo grigia, allora era buio anche
quando c’era ancora luce, ed era freddo anche se era estate. però andava bene,
perché c’erano tutte quelle valigie e ceste e quindi un’intera vita che veniva
con noi, e soprattutto c’era la parlata, che appena arrivati al binario era
all’improvviso quella di sempre. funzionava così, che per mesi stavi nella
città grande e parlavi la lingua della città grande, e poi una sera ti
prendevano, ti portavano nella grande stazione, spostavano le valigie e i
pacchi e le ceste sul binario del treno verso giù, e all’improvviso intorno a
te si materializzavano decine, centinaia di persone che parlavano la lingua di
giù. che era come essere già a casa, perché nella partenza, allora, casa doveva
essere quella.
dove stava tutta questa gente nel resto del tempo?
vivevano sempre al binario della stazione? non importava, andava bene così.
siccome parlavano la lingua giusta, sapevi che si sarebbero comportati nel modo
giusto, una volta saliti tutti sul treno. noi non viaggiavamo nei vagoni letto
che costavano troppo, noi partivamo di notte ma stavamo sui sedili normali. io
un vagone letto, ancora adesso, non l’ho mai visto. e negli scompartimenti
normali c’era tutta quella gente che era la gente normale, che era diversa
dalla gente della grande città dove avevi vissuto fino a poco prima e dove
forse non tornavi, non lo capivi mai se si partiva per un po’ o si partiva per
sempre. ma quella era gente normale e quindi aiutava i nonni a caricare tutte
le valigie e i pacchi e le ceste e le borse e i nipoti, e poi ti parlavano
normalmente, anche quando ti parlavano strano era normale. perché, picciotta, era
una parola strana per la nostra provincia dove non si dice picciotta, si dice
picciridda, e quindi era una parola strana, ma era lo stesso una parola normale
perché sapevi che era il modo di dire di gente uguale, solo un po’ più giù col
treno. quelli che scendono dopo dicono picciotto, noi che scendiamo prima
diciamo picciriddu. nella città grande dove abbiamo vissuto finora e chissà se
ci torniamo, non dicono in nessuno dei due modi, e quello è essere strani
davvero.
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