siamo seduti uno di fronte all’altra e io mi sto
chiedendo qui come ci sono arrivata. gli sei affannosamente trotterellata
dietro per tre stanze dopo essere schizzata fuori dall’ascensore, sghignazza la
proiezione di me stessa, comodamente appoggiata a una parete dell’ufficio. e
poi hai rischiato di farti trucidare dalla segretaria.
sospiro. il genio è quel tipo di uomo. quello che,
avendo da fare in media per 36 ore al giorno, logicamente accelera. tutto.
anche il semplice uscire da un ascensore, entrare in un ufficio, divorare il
corridoio, lanciare al volo il cellulare alla segretaria dicendole di mandare
una mail a quell’indirizzo scritto lì, riprendere subito il cellulare
dichiarando che è scritto piccolo e che lei non ci vede, rilanciare il cellulare
a me ordinando: dettaglielo tu che sei giovane e lo leggi, voltare le spalle
nell’esatto momento in cui la segretaria, che in effetti avrà solo una decina
d’anni più di me, mi rivolge uno sguardo di puro odio e di promettente futura
vendetta, mentre io mi dipingo in faccia un’espressione tipo io che c’entro che
vuoi da me l’ha detto lui e, ubbidiente, scandisco con tanto di spelling, a
voce alta e chiara, sia mai che oltre che cieca sia pure sorda.
e poi lo seguo mentre schizza in una stanza che però
non va bene che secondo lui fa freddo, e poi in un’altra stanza ancora che,
ecco, siediti. mi siedo. fumi? fumo (e anche se non fumavo, iniziavo adesso).
mi guarda. vediamo di capire questa che vuole e cosa posso farne di lei.
l’interrogatorio inizia a raffica di mitra, e io cerco di tenere botta, mentre
ogni tanto lancio uno sguardo allarmato alla proiezione di me stessa che
commenta serafica, beh, se sopravvivi puoi darti ai cento metri.
sono in affanno mentale, adesso. sono abituata ad
essere leggermente più veloce delle persone con cui lavoro. ma quest’uomo,
perdìo, ha una capacità di elaborazione dati al microsecondo che nemmeno il
processore di un computer della nasa. sto ancora a metà della prima frase di
una risposta che lui è già schizzato tre discorsi più avanti, e io mi sto
perdendo. in pochi secondi ha un’idea chiara del mio curriculum, delle mie
potenzialità, della mia personalità, del mio passato e del fatto che, del suo
campo, io non so niente. non ho mai lavorato in quell’ambito. nel settore
genio, la mia esperienza è zero. e qui lo vedo rallentare per un attimo, sta
dubitando. sì, talento ha talento, ma che ci faccio io con questa? qui mi gioco
tutto. riprendo fiato, e passo all’attacco io. tiro fuori dalla borsa un altro
progetto, oltre a quello che gli ho mandato per mail quando gli ho chiesto il
colloquio. questo è ancora abbozzato, ma è tarato su di lui. esiste per
affascinarlo, è stato creato appositamente per sedurlo. e poi gli spiego, gli
impongo, che io devo lavorare con lui. devo. che sono perfetta per lui. e,
ormai calibrata sui suoi ritmi, in due minuti gli rovescio addosso qualche
migliaio di parole, forza, disperazione, entusiasmo e ferma, assoluta e
inderogabile volontà. io. devo. lavorare. con. lui. gli posso essere utile. davvero.
io sono davvero perfetta per te. e lui, placido, risponde, lo so. ho una certa,
come dire, telepatia, io. guardo perplessa la proiezione di me stessa. beh,
poteva usarla prima di impallinarti con mille domande in tre minuti, la certa
telepatia, commenta lei caustica.
e poi il genio mi guarda, e fa la domanda. quella più
ovvia. l’unica a cui non posso rispondere. ma tu, perché hai lasciato il tuo
lavoro e sei venuta da me? ecco, mi dispiace, ma ora io ti devo mentire. mi
conosci solo da pochi minuti, sto cercando disperatamente di farti una buona
impressione, come faccio a dirtelo. che sono qui perché tre mesi fa l’universo
in cui vivevo è imploso.