lunedì 28 marzo 2011

primavera

è uno strano inizio di primavera. come lo ha definito penelope1, uno strano periodo, in cui c’è chi viene e c’è chi va. non che le persone non lo facciano sempre, di andare e venire, ma pare che in questi giorni nessuno riesca a stare fermo. così ci sono persone che sono andate via, qualcuno in modo alquanto drastico, e altre che sono arrivate, ma gli arrivi non sembrano mai definitivi quanto le partenze, e altre che invece stanno tornando, e non si capisce ancora bene in che posizione poi si fermerà il tragitto.
per dire, se n’è andato anche il decimo dottore, nelle repliche di doctor who, ed è arrivato l’undicesimo. che a me non piace. il decimo era perfetto. david tennant è in assoluto il mio doctor who preferito, che si sappia.
io ho lasciato definitivamente un lavoro, e siccome so che le chiusure definitive sono faticosissime, e la fatica tanto vale accorparla e smaltirla tutta insieme, già che c’ero ho lasciato definitivamente anche qualcos’altro. per quanto io abbia smesso da un po’ di fidarmi dell’avverbio “definitivamente”, che è alquanto incerto sul suo reale significato, e chi è incerto su se stesso poi provoca e porta incertezza anche intorno a sé, stavolta ritengo possibile che abbia un senso.
così stamattina invece di uscire ho disdetto un appuntamento, sono andata in camera da letto, dove non entravo da un po’ (negli ultimi giorni ho messo un materasso sul pavimento in soggiorno e ho dormito lì), mi sono seduta per terra e ho pianto. per quasi un’ora, credo, finché non è arrivato gatto, mi ha abbracciato un ginocchio e mi ha morso. e niente, ho smesso. non è arrivato david tennant a porgermi la mano e a invitarmi a salire sul tardis, me ne farò una ragione. però, mi sarebbe piaciuto. che poi lo so, che il problema principale del decimo dottore è stato questo continuo sentirsi dire “per sempre” (deve avere, con “per sempre”, gli stessi problemi che ho io con “definitivamente”) e invece no, ma io davvero con lui sarei rimasta per sempre.
allora sono tornata in soggiorno, un po’ in imbarazzo, perché è tanto tempo che non sento più il bastone della pioggia e l’albero di natale nano e la poltrona verde e tutti gli altri, ma io lo so che non sono loro che hanno smesso di parlare, sono io che ho smesso di sentirli. e però mi hanno riaccolta, come poi fanno sempre, e mi hanno detto che non c’è problema, che lo sapevano già, che lo sapevo anch’io. che lo avevo già scritto, che ci sarebbe stato un periodo in cui non li avrei ascoltati, ma poi sarebbe finito. e adesso, mentre scrivo, vedo di nuovo la mia ombra, l’ombra delle mie mani, sulla tastiera. prima non c’era. ma anche la mia ombra, come me, ha problemi con “definitivamente”, e quindi, certo che tornava. certo.
allora adesso sbrigo qualche pratica arretrata, di quelle di quando si lascia un lavoro, mail di saluti, nuovi recapiti, amministrazione; poi mi trucco, che sugli occhi gonfi non è un’operazione facile ma nemmeno impossibile, poi esco e vado a salutare. il lavoro. quell’altra cosa che ho lasciato, invece, quell’altro frammento di amore perso per strada, quelle parole usate male ancora una volta, che si sono di nuovo rotte, lì invece non saluto. perché, diceva marlowe, so long, amigo. i won't say goodbye. i said it to you when it meant something. i said it when it was sad, and lonely, and final.