venerdì 31 dicembre 2010

without any fear

la distanza tra un gatto e l’essere umano con cui vive tende ad essere direttamente proporzionale alla temperatura esterna: d’estate, il gatto se ne sta quasi sempre in un’altra stanza con aria accaldata e scocciata; d’inverno, è pressoché impossibile appoggiarsi un attimo da qualche parte, sedersi o semplicemente stare fermi in un posto per più di mezzo secondo, senza ritrovarsi una palla di pelo ronfante in braccio. questo sensibilissimo strumento per le previsioni del tempo, che contempla un’ampia serie di comportamenti a cui corrispondono altrettante condizioni climatiche, prende il nome di gattometro; e il mio in questi giorni segnala che è in arrivo un altro calo della temperatura.
quindi stamattina ho deciso di preparare psicologicamente le piante e ho aperto la finestra per avvertirle, ma l’ho richiusa un secondo dopo e ho pensato che in fondo potevo prepararle psicologicamente anche a gesti, dietro il vetro, appoggiata al termosifone. le piante sono ancora molto depresse dall’ultima gelata e le sto curando a psicofarmaci; il risultato è che sono un po’ accasciatelle, ma ogni tanto hanno guizzi improvvisi di vitalità che impiegano per sfottere i vicini.
in compenso l’albero di natale nano, che in genere durante le feste è di umore pessimo perché detesta il natale, ha letto il commento al post precedente, “albero di natale nano for president”, e gli si sono gonfiati tutti i fiocchetti. la lampada ha la sua nuova alogena, che sono riuscita a cambiare in soli tre tentativi, la poltrona verde è appesantita dai bagordi ma tiene botta, il bastone della pioggia conduce esperimenti silenziosi sul suono della neve, l’elefantino viola gioca a carte col dio anubi, io mi sto riappropriando, a piccoli tentativi e con calma, di me stessa. siamo, più o meno, sempre noi.

martedì 14 dicembre 2010

speriamo che piova

roma è una città dal clima mite. non è normale che a luglio facciano 40 gradi. non è normale che in settimana siano previsti sei gradi sottozero.
roma è una città dal clima mite. non è normale che nella strada che fai sempre quando torni dal lavoro e vuoi passeggiare in centro, tra pittori e musicisti, ci siano blindati che vanno a fuoco. non è normale che il tratto di strada di cui raccontavi, che era una specie di triangolo delle bermuda al contrario perché spesso vedevi passare volti persi da anni, sia invaso da fumo nerissimo e non si veda più niente, né passato né futuro.
roma è una città dal clima mite. l’ultima vera nevicata c’è stata nell’85, e ancora tutti la ricordano e la raccontano come un evento straordinario. al limite, da noi, la pioggia: ma il tevere minaccia, minaccia, e poi il più delle volte resta al suo posto, pigro e indolente come noi.
roma è una città dal clima mite. il ’77 è passato da 33 anni. è persino troppo mite per essere superstiziosa e pensare che a 33 anni si rischia la crocifissione. e della resurrezione non c’è traccia.
roma è una città dal clima mite. fuoco e gelo qui non c’entrano niente. speriamo che piova.

lunedì 22 novembre 2010

l’anno inizia quando si vuole e finisce quando vuole lui

io ho sempre detto che l’anno nuovo inizia quando si vuole che inizi, ed è vero. però c’è anche un’altra caratteristica da tenere presente quando si ha a che fare con gli anni, e cioè che l’anno finisce quando decide lui. senza avvertire, senza preoccuparsi, senza lasciare il tempo di abituarsi all’idea.
a me, oggi, è finito l’anno. è finito intorno a mezzogiorno, il che conferma la predilezione forse scaramantica degli anni per il numero dodici. è finito senza fuochi artificiali e senza botti, a parte quello che mi è esploso molto silenziosamente dietro lo sterno. poi potrei dire che un po’, una qualche parte di me che peraltro non ha ritenuto opportuno avvertirmi, l’aveva capito, perché stamattina mi sono tagliata i capelli, non tantissimo, una quindicina di centimetri, sono ancora più lunghi che corti, però sono diversi; e poi ho messo una gonna, e io le gonne non le metto mai, e poi ho messo gli stivali con i tacchi da dieci, e io i tacchi non li metto mai; e mi sono anche truccata, e quella non è stata una grande idea perché a me gli anni quando finiscono mi commuovono parecchio. e già la settimana scorsa determinate azioni erano state compiute e determinate decisioni prese. e insomma, in qualche modo lo sapevo, chiamiamolo intuito femminile, chiamiamolo esperienza, competenza e professionalità nel settore fine&affini.
poi niente, quando ti finisce un anno non è che puoi farci molto, è finito. puoi piangere un po’ se comunque hai quell’indole e anche un’età per cui hai finalmente smesso di rimproverarti ogni volta che piangi. puoi andare in libreria, puoi anche andare in ben due librerie, ma poi ti guardi intorno e sei circondata da libri ma non ce n’è nessuno che vada bene per un anno che è finito così, all’improvviso. puoi guardare la pioggia col sole e ricordarti che un anno che finisce vuol dire che un altro sta iniziando. puoi pensare a una cosa che farai, tra qualche giorno, per salutare l’anno finito e l’anno nuovo, e sorridere perché è una bella cosa. puoi andare a comprare una bottiglia di uno dei tuoi vini preferiti, perché ci sta. puoi anche sorridere e contemporaneamente piangere, anche per tutto il giorno, perché se lo può fare il cielo lo puoi fare anche tu.

giovedì 11 novembre 2010

bit?

c’erano questi due computer, uno stava a milano, uno a roma. lavoravano entrambi tutto il giorno, e lavoravano tanto. alcuni computer dicevano che quello era un mestiere duro ma era sempre meglio che lavorare; altri computer pensavano che lavorare in quell’ambito, l’arte, la cultura, non era mica lavorare. non era mica lavorare un paio di megabyte, avrebbero risposto quei due computer lì.
comunque, quei due computer stavano a schermo chino e lavoravano, e ogni tanto interagivano fra loro. il computer di roma a volte aveva bisogno di dati e li chiedeva al computer di milano, in formale e rigido computerese. il computer di milano, in formale e rigido computerese, rispondeva efficiente e preciso. poi magari non si scambiavano dati per un po’ di tempo, poi al computer di roma servivano altri dati, o al computer di milano serviva che il computer di roma trasmettesse dei dati nuovi, e allora si scrivevano, sempre in formale e rigido computerese.
finché un giorno, al termine di un puntuale ed efficiente scambio di dati, il computer di milano scrisse, salutami roma.
il computer di roma pensò, bit? (“bit?” esprime perplessità computera mista a stupore).
il computer di roma lasciò passare un’ora, continuando a lavorare. ma ogni tanto tornava a pensare, bit? è che, se già in generale non si sarebbe aspettato una deroga da certo formale e rigido computerese culturale (i computeri culturali sono i più formali e rigidi in assoluto, altro che megabyte), tantomeno avrebbe potuto aspettarselo da un computer di milano. tra i computer di roma giravano certi luoghi comuni, sulle schede madri dei computer di milano.
il computer di roma terminò il suo lavoro. lasciò passare un’altra mezz’ora, che spese a chiedersi se il computer di milano in realtà fosse pazzo. non si sa mai, magari un virus. alla fine il computer di roma alzò lo schermo verso la finestra, guardò fuori, formulò, ciao, roma. poi rispose al computer di milano.
questa non è una storia d’amore fra computer di roma e di milano. magari nemmeno diventeranno amici, né si incontreranno mai o che. è solo la storia di un umanissimo, computerissimo “bit?”.

lunedì 8 novembre 2010

grazie, penelope

negli ultimi tempi ho scritto poco non perché sia stata particolarmente impegnata a vivere, come a volte mi capita di leggere qua e là; ma più che altro il contrario. essere particolarmente impegnati a vivere il meno possibile è una faccenda molto complicata che richiede un sacco di attenzione, cautele ed energia. ti distrai un attimo e succedono certi casini. tipo, per dire, va bene che li amo (soprattutto rocco). di un amore totale, da cassonetto differenziato a vite bruciacchiate. mapperò, fino a poco tempo fa, io ero forse l’unica persona sul pianeta terra a non aver mai sentito il waka waka. e ci tenevo abbastanza, a questo record. e ora l’ho perso, per colpa dell’afrika. che poi è una delle ultime cose che ho sentito, prima che mi tornasse l’otite, in una nuova e battagliera versione impegnata: l’orecchio destro fa un casino assurdo, quello sinistro passa da un monotono ronzio vibrante sempre uguale al nulla. più che un’otite, un commento politico.
per il resto, sono stata impegnata a discutere con il mio rappresentante sindacale, il dio anubi. la mia linea d’azione era, rassegniamoci a una comoda, per quanto magari un po’ lenta, morte per inedia. lui insisteva con quella faccenda del pesare il cuore, la piuma e tutto il resto. crede davvero di riuscire a trovarlo, un cuore, da qualche parte; come rappresentante sindacale mi è capitato l’ultimo dei romantici.
però poi è successa una cosa bellissima, che ci terrei a raccontare in particolare al signor bandini: il reparto entropia, che stava per essere smantellato, è insorto. ed è insorto nella figura di penelope 1, la mia personalissima penelope, quella che ha sempre fatto sì che con i bonus bestemmie annuali io andassi fuori con l’accuso già tipo a febbraio. penelope 1 resta. e io, che all’idea di essere privata di penelope 1 mi stavo spegnendo, ed ero già lì pronta con la scatola di cartone a portare via le mie cose, ebbene, quando ho saputo che penelope 1 restava ed era pronta a dare battaglia, e a rendermi quindi la vita ancora più impossibile che finora s’è solo scherzato signora mia, io sono risorta. finché penelope 1 resiste, resisto anch’io.
forza, penelope.

martedì 12 ottobre 2010

borghitudini

stamattina sono stata svegliata dal citofono: erano due borg inviate dal parroco borg, che mi annunciavano la costituzione di un gruppo di lettura del libro della legge dei borg, a cui si poteva partecipare gratuitamente. ho chiesto, perché, c’è anche gente che paga per una roba del genere? mi sono risposta da sola. sono uscita e sono passata davanti alla chiesa borg; come al solito c’era un funerale. non riesco a capire, è da un po’ che ogni volta che passo davanti alla chiesa borg incrocio un funerale. o c’è una strana epidemia al quartiere-paese di cui nessuno ci ha avvertiti, o il parroco-borg è così abile a celebrare funerali da attirare clienti da ogni parte della città, oppure è lo stesso funerale che viene ripetuto ogni mattina perché il morto è un perfezionista e lo fa ripetere finché non viene benissimo.
poi sono arrivata a lavoro. con il capo stiamo ridiscutendo il mio contratto. lui mi ha passato quella che dovrebbe essere la proposta definitiva, insieme a una comoda penna-siringa per firmare col sangue. il punto 1 recitava, “resistance is futile. you will be assimilated”. sono rimasta perplessa, non mi ricordavo che il contratto della categoria fosse stato modificato così. ho pensato di chiedere al sindacato, ma sono così assimilati che a volte fanno un po’ impressione anche agli altri borg. sono uscita a fumare una sigaretta, riflettendo sulla discrepanza tra l’interesse per me come individuo e quello per me come possibile elemento della collettività, e mi sono chiesta se ci fosse qualcuno che coerentemente se ne fregasse di me sia come individuo sia come collettività. allora ho telefonato all’avvocato divorzista dei miei e abbiamo preso un caffè insieme. aveva degli strani tubicini lungo le articolazioni.

venerdì 17 settembre 2010

tumbleweed

per anni mi sono chiesta come si chiamassero i cespugli che rotolano nei film western.

oggi c’era una busta blu in mezzo alla tiburtina. rotolava spinta dal vento. intorno a lei invece di cowboy, diligenze e indiani sfrecciavano macchine, autobus e motorini. ho pensato che vivo in un’epoca che insomma. che poi magari anche qualche sioux, osservando un cespuglio rotolare accanto a una diligenza, avrà pensato che viveva in un’epoca che insomma.

poi sono tornata a casa e non c’è niente da mangiare, ma proprio niente, c’è un po’ della torta di ieri ma non mi va, c’è un po’ del vino di ieri ma non si mastica, e io di uscire e fare la spesa non ho voglia. stamattina sotto la doccia riflettevo sul fatto che i compleanni in genere mi servono per fare il punto su quello che è perso e chiuso, e invece quest’anno è più importante quello che è nuovo e aperto. anche se.

per quanto io possa pensare che alcune persone rotolino nella mia vita come salsole, poiché conosco il segreto dei maghi baol, so che non è così. non sono loro.

martedì 7 settembre 2010

x – scuola di polizia – factor

io tifo per zed (e anche un po' per sweetchuck).

mercoledì 11 agosto 2010

l’anno nuovo inizia quando si vuole che inizi

ho il sospetto che ci siano modi migliori per iniziare una giornata, che raccogliere i pezzi di vetro di una cornice rotta da una capra silente. ho anche il sospetto che ci siano modi migliori di affrontare la vita, che circondarsi di alberi di natale nani che sfottono, bastoni della pioggia e poltrone verdi che pontificano, cuscini del divano che rimarcano le differenze tra me e i vulcaniani, elefantini viola che piangono sulla birra versata e capre silenti che rompono cornici.
in realtà sono consapevole del fatto che, a loro modo, cercano di fare di me una persona migliore (ok, non credo che diventerò una persona migliore con schegge di vetro conficcate nei polpastrelli, ma non si sa mai), è solo che non lo ritengo uno sforzo sensato. io sono stata peggiore di così, e stavo meglio di così. e quindi non posso fare a meno di pensare che se diventassi migliore di così, potrei stare ancora peggio di così, e sinceramente non è che mi vada moltissimo.
per il resto, passo le mie giornate bevendo tè e caffè americano col dio anubi, che è diventato il mio consulente sindacale; meditando pigramente sul fatto che devo di nuovo cercare un lavoro; chiedendomi, senza stare a sprecarmici troppo, chissà in che punto mi sono persa, dove e quando, e se nel frattempo mi sono spostata. perché il problema di quando si perde qualcosa è che, anche se ci si impegna e si riesce a capire dove potrebbe essere successo, poi non è per niente detto che in quel punto preciso ci si ritrovi. metti che ha tirato vento, tipo. allora pensavo, anche se torno indietro, nel punto e nel momento esatto in cui mi sono persa, magari io non sono più lì. e quindi forse mi conviene restare qui. o qua, che dei tre era quello che mi stava più simpatico. che comunque il posto da paperoga è già occupato.

sabato 24 luglio 2010

beati gli smemorati perché avranno la meglio anche sui loro errori (nietzsche)

poiché noraneko, fin dall’inizio del viaggio, aveva fatto del suo meglio per portare gli umani esattamente nella direzione opposta rispetto a quella dove avrebbero finito col ricordare tutto, si capisce come l’essersi ritrovata all’improvviso nella città dei ricordi non le avesse fatto un granché piacere.
guardò il grande arco che portava verso la città nella città che si sdoppiava in due città, con molta irritazione. e visto che quella era la città dei ricordi, dando prova di inusuale ma comprensibile coerenza, ricordò. un sogno che aveva fatto quando ancora si trovava nell’altra dimensione.
si trovava in una specie di paesino sviluppato in salita, con vecchie case caratteristiche e deliziose ringhiere in ferro battuto costrette a stridere fastidiosamente con insegne, macchine e segnali di un postmodernismo già sorpassato nel resto del mondo. uno di quei paesi dove si trovano bottiglie di bevande gassate che si suppone si materializzino lì tramite un varco dimensionale che sbuca sugli anni ’50, per dire.
aveva visto lui e gli altri seduti a un tavolino di un bar sulla piazza che portava al grande arco. dalle porte della città nella città entravano e uscivano, come sempre, le anime che vivevano all’interno del mondo su cui davano le grandi porte dopo l’arco. noraneko sapeva, più per educazione magica che per conoscenza diretta, che nella città nella città vivevano due tipi di anime. le prime, che erano ancora abbastanza nitide e quasi del tutto uguali agli umani, avevano accesso all’esterno, al paesino. le altre, molto più sbiadite, per quanto nell’aspetto identiche alle prime (ognuna aveva il suo doppio perfetto), avevano invece accesso all’interno, a qualcosa che stava dentro il mondo dopo il portone dopo l’arco, e che solo loro potevano vedere. quindi, di fatto in quel paesino vivevano tre tipi di esseri: gli abitanti del paesino, totalmente all’esterno; le anime della città nella città che si potevano spostare dall’interno al paesino; le anime della città nella città che si potevano spostare dall’interno all’ancora più interno. tra la parte media e le due parti estreme c’era una possibilità, seppur limitata, di comunicazione. tra le due parti estreme, no.
noraneko temeva l’interno ancora più interno come si temono le cose che non si conoscono ma non promettono tanto bene, e così aveva accolto con parecchio nervosismo e dichiarata ostilità la notizia che le aveva dato lui, tutto orgoglioso e soddisfatto: gli avevano proposto un lavoro da chef nella città nella città, ovviamente solo nella parte in contatto col paesino, e lui aveva accettato. in qualche modo, nel sogno, per controllare la situazione e cercare di prevenire disastri, era riuscita a ingannare le anime guardiane e a portarsi all’interno dell’interno, spacciandosi per un’anima che aveva accesso alla città nella città, ma cosa si fosse trovata davanti, e come avesse fatto ad uscirne, non lo ricordava. il sogno si concludeva con le sue preoccupazioni spazzate via da un uragano che si stava abbattendo sul paesino.
ora noraneko si trovava fuori da un sogno, ma dentro la città dei ricordi, davanti al grande arco; con tutti quegli umani a cui badare, tutti quei ricordi da allontanare, tutte quelle anime che si spostavano dentro e fuori e dentro nel dentro; e aveva la netta impressione che a breve avrebbe avuto a che fare con l’equivalente di un uragano.

domenica 18 luglio 2010

percezioni

fa così caldo che ho visto gatto bere acqua per due volte in una settimana; le prime due volte che glielo vedo fare in quasi cinque anni che ci conosciamo.
fa così caldo che persino il cactus in terrazzo non ne può più, figuriamoci i gerani. peraltro, mentre passato e futuro soffrono ma sopravvivono, temo di dover ridare la notizia della prematura scomparsa di presente, di nuovo. non lo so mica se è normale che ogni volta che chiamo un geranio “presente”, quello muore. non so neanche se devo chiedere a un vivaista o a uno psichiatra.
fa così caldo che non riesco nemmeno a leggere e a scrivere, e questo è un po’ un problema, visto che il mio lavoro è leggere e scrivere, e fin qui passi, ma anche la mia vita, e questo dà qualche ripercussione in più. soprattutto sul presente. anche nel senso del geranio.
fa così caldo che ho spostato un materasso per terra nel soggiorno, che è rivolto a nord, e ora dormo incastrata fra tutti loro: dalla parte della testa la poltrona verde e la lampada, dirimpetto la poltrona rosa antico, a sinistra il cuscino del divano, a destra la mensola con l’albero di natale nano e il bastone della pioggia e accanto la cyclettattaccapanni.
fa così caldo che anche loro parlano pochissimo, e ci perdiamo in altre dimensioni in silenzio. abbiamo scoperto che alle 12.15 la luce entra dalle finestre e proietta l’ombra della ringhiera, della mensola e dell’albero di natale nano sulla parete di fronte in un modo che sembra un’altra vita. allora alle 12.15 ci giriamo tutti verso la parete e osserviamo le vite che non stiamo vivendo.

domenica 20 giugno 2010

annunciazio' annunciazio'

ieri ho fatto il mio primo cruciverba. non "risolto", proprio fatto. io.
oggi sto al settimo, combatto con un 12x22 a tema, sono ancora una principiantella con troppe caselle nere e troppe definizioni da due lettere, ma mi sto divertendo un casino.
e mi rendo anche conto che una serie di e chi se ne frega stia sgorgando spontanea dai vostri cuori, mapperò c'è questa cosa, che sono così contenta.
io, i cruciverba e l'illogica allegria.

martedì 25 maggio 2010

cercasi prospettiva un po' più sveglia

dice lui che il suo (di lei) punto di vista è completamente sballato, dalla sua (di lui) prospettiva.
pensa lei che la sua (di lei) prospettiva purtroppo non è mai stata paracula quanto la sua (di lui).

lunedì 24 maggio 2010

martedì 11 maggio 2010

le cose che non si dicono nemmeno a se stessi

poi finisce che si dicono da sole. che stavano lì che riecheggiavano e si scontravano contro un muro di autodifesa, come le falene quando vanno a sbattere compulsivamente contro qualcosa che le acceca, come le mosche rimaste bloccate dalla parte sbagliata di un vetro. passi mesi a non ascoltarti, a non parlarti, perché quella cosa lì non la vuoi sentire, non ci vuoi riflettere, non vuoi false speranze che ti scricchiolano dentro per quanto sono finte, non vuoi rassegnazione, non vuoi affrontare, vuoi non sentire niente e allontanare dalla comprensione questo sottilissimo sbattere contro un vetro chiuso di qualcosa che hai dentro e che speri si esaurisca da solo, evapori e basta, e se non ne hai preso coscienza non te ne resterà nemmeno il ricordo.
e invece una sera esci e state in tanti fuori dal locale a fumare e chiacchierare e quella persona dice una frase, e senti qualcosa che si spezza. così piano che non fa nessun rumore, e ti ovatta in un modo tale da farti credere che non ha fatto alcun male. come quando hai un incidente e ti fai malissimo, ma lì per lì, mentre sei per terra, immobile, in realtà non ti fa male nulla, c’è lo shock dell’impatto che ti anestetizza. e poi basta uno spostamento di un millimetro a farti sentire tutto quello che si è rotto.
e stai lì nello shock dell’impatto, in pieno incidente, e inizi a sentire un vago malessere, così vago che per qualche secondo puoi ancora sperare che non si sia rotto nulla, che non sia quello che è. e invece è quello che è. è dolore. è il dolore delle cose che non ti sei detta, che escono dal vetro che si è rotto.
e sei caduta così tante volte che ormai lo sai bene che questo è niente, in confronto a quanto farà male la mattina dopo.

lunedì 26 aprile 2010

anarco-realista

sabato sera ho partecipato a una festa per donne allergiche alle vespe, vespe, squadre di disinfestazione dei vigili del fuoco e gatti. domenica mattina ho partecipato a una festa per donne allergiche alle vespe, vespe, manovratori e gatti. domenica pomeriggio le vespe ed io ci siamo riunite e ci siamo confrontate sugli articoli 52 e 575 del codice penale, sulla risoluzione L29 dell’onu e sulla terza legge di newton. stamattina all’alba quelli del piano di sotto hanno dato una festa per disinfestatori di vespe, vespe, quelli del piano di sotto e gatti. apparentemente, in questo periodo al quartiere-paese abbiamo qualche problema con le vespe.
poi sono uscita e ho partecipato a una riunione che teorizzava il campare d’aria come migliore rimedio per la crisi; per quanto in italia non ci sia la crisi, come è stato detto da gente che ne sa (sono solo milioni di casi isolati, come la non epidemia di sturmtruppen).
poi sono tornata a casa e ho sentito ronzare. ho capito che non ce la potevo fare; sono due giorni che non dormo e comunque vorrei appartenere a una categoria svantaggiata per volta: o donna allergica alle vespe in periodo di vespe, o donna senza un soldo in periodo di crisi. entrambe le cose, non so, mi sembra di esagerare. allora ho controllato le scorte di cortisone, ho stappato una birra, poi ne ho stappata un’altra, e ho intavolato una discussione politica con le vespe. sto cercando di capire se, in quanto operaie, votino lega, ma pare che siano anarco-monarchiche. devono essere proprio vespe italiane, sì.

martedì 20 aprile 2010

nubi di ieri sul nostro domani odierno

stamattina verso le sette, due trenini del far-west che non si incontravano da un po’ di tempo si sono visti da lontano e sono corsi ad abbracciarsi. stamattina verso le nove, una donna che già di suo non è che sia proprio entusiasta all’idea di andare a lavoro (non è proprio entusiasta in generale della parola “lavoro”) ha scoperto che questa faccenda che non hanno ancora inventato il teletrasporto è davvero parecchio scomoda, e sarebbe ora che qualcuno (che so, un qualche vulcaniano) intervenisse.
mentre meditava su frasi minacciose come blocco della circolazione su tutta la linea, carrozze deragliate, servizio bus sostitutivo, mbe’ signori’ da qualche parte ‘sta navetta avrà da passa’, la donna non proprio entusiasta osservava il cielo sopra il quartiere-paese. la donna non proprio entusiasta è da ieri che scruta il cielo, per avvistare la minacciosa nube che ha bloccato turisti, politici, piloti di formula uno, mozzarelle da esportazione. la donna non proprio entusiasta, ieri pomeriggio, mentre circolava in centro col naso all’insù valutando certe nuvole dal colore stranissimo, blu-grigio su sfondo di nuvole bianche su sfondo di cielo azzurro, ha anche preso in pieno un camion; che per fortuna era fermo e parcheggiato, ma si è fatta maluccio lo stesso. anche perché era reduce dall’aver centrato già un paio di pali. la donna non proprio entusiasta non lo dice espressamente, ma sente, dentro di sé, una certa qual inspiegabile simpatia nei confronti della minacciosa nube no-global.
la donna non proprio entusiasta, bloccata a terra con qualche centinaio di pendolari dall’abbraccio di due trenini del far-west che coprono un tragitto di una manciata di chilometri, esattamente come sono bloccati a terra migliaia di esseri umani che dovrebbero spostarsi su mezzi ipertecnologici e attraversare interi continenti, si è sentita improvvisamente e illogicamente entusiasta, e se ne è andata a lavoro sorridendo. ci ha messo due ore.

martedì 6 aprile 2010

geraniare

l’altro giorno stavo togliendo i rami secchi a futuro, quando si è spezzato un rametto sano. a volte ho l’impressione che i miei gerani confondano il metaforico col didascalico; soprattutto da quando presente si è suicidato. mi sono seduta davanti al vaso di passato e futuro, e ho detto (al quartiere-paese non ci fanno più caso, se parlo ad alta voce con le piante. purché siano le mie piante. se parlo con le piante di qualcun altro invece mi guardano ancora un po’ male) che lo so, che sono perplessi su quello che sto, o non sto, combinando. ma che non sto tagliando rami secchi, né tantomeno sto scambiando rami sani per rami secchi.
insomma, ho spiegato, io sono quasi tre mesi che non comunico più con una persona, e voi non capite perché; quello che non state seguendo, che altrimenti capireste, è che sono quasi tre mesi che invece cerco di comunicare con un’altra persona. che magari secondo voi va bene. e invece no, o meglio, sì, era necessario, ma non avete visto l’opacità: io e quest’altra persona qui avevamo tanta lucentezza, una volta, e poi l’abbiamo rotta, e ci siamo trovati pieni di frammenti ovunque; e allora io ho preso un po’ di frammenti, e lui ha preso un altro po’ di frammenti, e abbiamo cercato di incollare di nuovo tutto insieme. e qualcosa abbiamo rimesso su, ma non è più com’era prima. a parte le crepe, che si sentono al tatto e un po’ graffiano; a parte i pezzi che mancano, e che non siamo riusciti a ritrovare; c’è che prima era tutto lucente, e ora è opaco. esiste di nuovo, si tiene su in qualche modo, sembra solido, ma è opaco. ora io sono piena di opacità dove una volta c’era lucentezza, e la vedo tutti i giorni, ed è doloroso; e quando ho iniziato a sospettare opacità da un’altra parte, me ne sono andata, prima che si rompesse anche quello splendore, prima di dover cominciare anche lì a cercare i frammenti, rimetterli insieme, e guardare di nuovo qualcosa che era lucente ed invece ora è opaco.
che raccontato così sembra che sono matta io, e magari è vero. ma ci sono rapporti che uno può venire a patti con l’opacità, e altri che no. che si aspetta, ci si allontana, si sta zitti, ci si pensa, ma opachi, no.
poi ho preso il rametto sano che si era spezzato, e l’ho piantato in un altro vaso. e mi sono chiesta se, venendo da futuro semplice, si chiamasse presente o futuro anteriore. e ho deciso che ora inizio a raccogliere i rametti di geranio che trovo in giro, e metto sul terrazzo tutto il verbo geraniare. che è da un po’ che ho finito le elementari e parecchie cose me le sono scordate, ma dovrebbero essere ventidue in tutto, otto per l’indicativo, quattro per il congiuntivo, due per il condizionale, due per l’imperativo, e sei per infinito gerundio e participio.
comunque il rametto nuovo ho deciso che ci riprovo, e lo chiamo presente. anche perché senza un presente non ha molto senso, stare a pensare a un futuro anteriore.

mercoledì 31 marzo 2010

il bastone della pioggia è un bastone della pioggia

ho fatto leggere il romanzo a due persone. non vorrei aprire un dibattito sul realismo magico, ma la sua prima caratteristica è la realtà (no, non la magia: proprio la realtà). che poi è questo che distingue il realismo magico dal fantasy: è reale. stranuccio, magari, ma reale. per cui, presempio, se si parla di un bastone della pioggia, incredibilmente si tratta proprio di un bastone della pioggia. ok, magari parla, mentre in un altro romanzo non parlerebbe; ma resta un bastone della pioggia.
comunque, la settimana scorsa stavo chiacchierando con lettore 1, e intanto facevo disegnini su un foglio (lo faccio sempre); lui mi chiede, cosa stai disegnando?, e io, questo è l’albero di natale nano, questo è il kanji di libro, questo è il bastone della pioggia, quest... e lui: cioè, il bastone della pioggia è un bastone della pioggia?! io pensavo fosse un ombrello! e io: ...
due giorni dopo stavo in macchina con lettore 2, e gli dico ridendo, ma sai che lettore 1 era convinto che il bastone della pioggia fosse un ombrello? e lui, sconcertato: perché, non è un ombrello?!
ora ho due strade, e sono indecisa. se mai qualcuno dovesse pubblicarmi il romanzo (che comunque non è che sia incentrato sul bastone della pioggia, eh) posso scegliere se fare la premessa dell’autore, quella roba in genere serissima in cui l’autore spiega specifica approfondisce blatera etc etc, e scrivere: scusate, era solo per avvertirvi prima che il bastone della pioggia non è un ombrello, è un bastone della pioggia. oppure, aspettare e fare il colpo di scena alla fine del romanzo: cambio il finale, cancello tutto l’ultimo capitolo, e chiudo con l’incredibile rivelazione che il bastone della pioggia è davvero un bastone della pioggia. sconcerto fra i lettori.
nel frattempo il bastone della pioggia ha messo su un’aria un po’ offesa.

domenica 21 marzo 2010

controluce

che sia ancora inverno è evidente, perché nel primo pomeriggio le vostre ombre si allungano sul marciapiede come se fosse quasi il tramonto. se sia alba, o tramonto, o l’altezza massima che il sole può raggiungere per voi, il limite che non può oltrepassare, non lo sai. certo le ombre sono più libere di voi, perché possono convergere dove voi non potete, e toccarsi sull’asfalto quando voi non vi sfiorate. e cammini e le guardi, e si direbbero attaccate, mentre tra voi ci sono sempre quei centimetri di sicurezza che il sole cancella quando vi colpisce alle spalle. pugnalati alla schiena da una luce che crea un contatto assente. ti diverti a oscillare un po’ per vederle avvicinarsi e allontanarsi, sfiorarsi e lasciarsi. le ombre vivono in un’altra dimensione, dove è più facile essere felici. poi lasci che restino a contatto, e le guardi camminare abbracciate, e ti chiedi cosa si stanno raccontando, e capisci che loro parlano quando voi state in silenzio, e restano zitte quando voi parlate, e forse vi ascoltano, vi commentano. e poi ridono di voi. senza malizia, con l’affetto per queste due creature solide, che camminano in verticale invece di scivolare sdraiate, che fanno fatica a superare la gravità e l’attrito invece di lasciarsi galleggiare, che hanno così tanti colori che non sanno usare, che non sanno fondersi. dobbiamo sembrare davvero strani e affaticati e scuri, noi, guardati in controluce dalle nostre ombre.

giovedì 4 marzo 2010

il riparatore di parole

noraneko, al contrario degli umani con cui sta viaggiando, sa che le parole si possono rompere. quando ha provato a spiegarglielo, loro non hanno capito, perché gli umani pensano che si possano rompere solo gli oggetti, le cose solide, e solo di determinati tipi, oltretutto. ad esempio, quando dicono “spezzare il cuore”, per loro è solo un modo di dire, un’immagine astratta, una figura. noraneko avrebbe voluto spiegare loro che i cuori si spezzano eccome, ma ha lasciato perdere perché la sua priorità era cercare di fargli capire che dovevano stare attenti con le parole. che le parole, se usate male, si rompono, esattamente come gli oggetti. e poi ripararle è complicatissimo.
noraneko, quando ancora viveva nella dimensione umana, ha rotto alcune parole. e ha scoperto che in quel mondo non c’erano riparatori. e quindi è stata costretta a rimanere lì, per anni, senza parole importanti, arrangiandosi con dei succedanei. noraneko, ad esempio, ha rotto la parola amare, e poi ha dovuto ripiegare su voler bene, affezionarsi, amicizia e tantissimi altri termini. ma amore, amare, innamorarsi, non è riuscita a ripararle da sola, e non le ha potute più usare.
nella dimensione degli umani non ci sono più riparatori di parole, perché gli umani non capiscono che le parole si possono rompere, e quindi non cercano qualcuno che possa ripararle. a mondo malgrado invece qualche riparatore di parole c’è, ma è difficile da trovare. ora noraneko deve trovarne uno in fretta, perché uno degli umani con cui viaggia, il più importante, ha rotto una parola. noraneko lo ha guardato preoccupata giocare con quella parola per mesi, ha cercato di avvertirlo che rischiava di romperla, ma non c’è stato verso. finché alla fine, quasi con rassegnazione, ha sentito il suono della parola che si spezzava. ora devono continuare il viaggio, che è complicato, pericoloso e pieno di insidie, senza la parola fiducia. ma a noraneko quella parola serve, le è indispensabile per viaggiare con l’umano. e quindi ora sta cercando un riparatore di parole. che ripari fiducia per lui. e, se c’è tempo, che ripari amore per lei.

domenica 28 febbraio 2010

quaresima

l’asfalto resta bagnato e trattiene ancora vecchi coriandoli. la strada è deserta e si sente solo il rumore di noi che camminiamo, io e un cane randagio rimasto indietro, indeciso se annusare un cassonetto o la ruota di una macchina, attratto dall’odore del possibile cibo e da quello di possibili simili. sono due tipi diversi di fame, ma si muore di entrambi.

sabato 20 febbraio 2010

everyway, everywhere, everylake

ernesto assante è un dannato genio.

update, domenica mattina dopo il caffè.
premio della critica: la banda dei carabinieri che suona star wars.
terzo classificato: la gialappa's. convitato di pietra nella mia radio rimasta spenta.
secondo classificato: l'orchestra. che il lancio dello spartito è stato uno spettacolo.
and the winner is: il genio di cui sopra, il suo compare e il blog.

lunedì 15 febbraio 2010

niente di nuovo. a parte la neve e una divinità egizia in corridoio.

venerdì ero quasi pronta per uscire quando ho visto, nel fuori che si intravede tra gli spiragli delle serrande, un curioso effetto bianco e nero, tipo quando il televisore non prendeva un canale, che se non sbaglio lo chiamavano effetto neve. allora ho tirato su la serranda e ho scoperto che, sì, era decisamente un effetto neve. a roma non nevica quasi mai, la neve qui viene concessa all’incirca una volta a generazione. allora ho acchiappato gatto e l’ho piazzato davanti alla finestra, e gli ho detto, guarda, quella è la neve. lui si è incuriosito ma nemmeno più di tanto. credo preferisca la grandine, forse perché è più movimentata. un po’ come la lavatrice, lui guarda la lavatrice come gli umani guardano la tv, e ha i suoi programmi preferiti. il programma lana lo trova noiosissimo, fosse per lui farebbe trasmettere solo cotone resistente molto sporco con prelavaggio. poi sono uscita e mi sono ricordata la sensazione buffa del camminare sulla neve, e sono stata presa a palle di neve da un albero e da un palo.
sabato mi sono ammalata di quel tipo di malattia che non puoi nemmeno bere un sorso d’acqua che la rivomiti e quindi tendenzialmente finisci col disidratarti.
domenica ho fatto amicizia con le allucinazioni da disidratazione, che ancora mi mancavano. mi sono girata e ho visto il dio anubi in corridoio. comunque, devo dire, persona gentile, discreta, non disturba, non abbaia nemmeno.
oggi ho scoperto che forse non era un’allucinazione da disidratazione, visto che io nel frattempo ho fatto grandi progressi, ho bevuto un’intera tazza di camomilla, ho mangiato un’intera mela, e lui è ancora qui che chiacchiera con l’elefantino viola. allora ho deciso che tra un paio di giorni, quando starò meglio, lo porterò al lavoro e lo presenterò al direttore. voglio proprio vedere se stavolta non mi dà l’aumento.

martedì 9 febbraio 2010

disaccordi

quello che manca nei dischi. anche nei ciddì, certo, e gli mp3 e tutto, ma soprattutto i dischi, perché per come sono cresciuta io, quella musica, con quelle orchestre, è a forma di 33 giri e puntina migliore del giradischi, quella che io ero troppo piccola e non potevo usare (che poi adesso a ripensarci mi viene su un sentimento di gratitudine verso i miei genitori, che sono stati disastrosi sotto parecchi punti di vista, ma mi hanno fatta vivere in una casa con migliaia di libri che potevo leggere tutti, non c’erano reparti proibiti, non c’era nessun questo no sei troppo piccola; ma i distinguo li hanno messi sull’uso delle puntine del giradischi. l’età faceva la differenza non sul contatto con l’arte, ma sul mezzo usato per. ecco, magari anche inconsapevolmente, ma in questo sono stati geniali).
comunque, quello che nei concerti c’è e nei dischi, e non capisco come sia possibile, manca, è (e lo so che poi ci sono tutte le altre cose, e l’emozione della presenza, e il vederli suonare e tutto quanto, non dico mica che quello non conti, ma) il momento iniziale, quello in cui accordano. tutti. contemporaneamente. per fatti loro. facendo un casino pazzesco.
io quel momento lì lo amo come amo il silenzio, di un amore totale. e dura sempre troppo poco. e secondo me dovrebbero replicarlo anche a fine concerto. che quando si applaude, si chiede il bis, io vorrei chiedere il bis di quando accordano.
e secondo me un direttore d’orchestra che ne capisce, non si offenderebbe affatto.

domenica 31 gennaio 2010

la gatta di schrödinger

da quando è tornata a mondo malgrado, noraneko ha consultato sciamani e stregoni, sacerdotesse e guaritrici, per scoprire l’origine del suo male. l’hanno osservata, visitata e analizzata, e infine tutti le hanno detto di rivolgersi allo sciamano che vive oltre il monte d’acciaio, specializzato in malattie incurabili. noraneko ha chiesto, e lui cura le malattie incurabili? no, le è stato spiegato, una malattia incurabile è per definizione incurabile: lui ti dice solo se ce l’hai. ma se poi non la cura, non ha molto senso andarci, ha osservato noraneko. ma così si sa se si è incurabilmente malati o no, è stata la risposta. bella fregatura, ha pensato noraneko.
c’è stato un tempo, quando era troppo giovane, in cui noraneko voleva le risposte. le voleva così tanto, da non soffermarsi a considerare le domande. poi, col passare dei pianeti, ha scoperto che una risposta non serve a niente, se non sai la domanda. e ha anche imparato a portare sempre con sé un asciugamano, e a non farsi prendere dal panico, ma questa è un’altra storia.
nella dimensione in cui ha incontrato gli umani con cui viaggia adesso, ha sentito parlare di un tale schrödinger e del suo gatto. la fisica quantistica non le è mai stata molto chiara: nel posto da cui proviene, l’energia è qualcosa che serve a fare arrosti di gente potenzialmente pericolosa e ad aprire varchi per vicoli che portano in altre dimensioni. però le è chiaro il punto di vista del gatto. chiuso nella scatola, il gatto sa di essere vivo. magari indiscutibilmente seccato, leggermente radioattivo e irritantemente posizionato vicino a del cianuro, ma vivo. lui sa che è senza dubbio vivo, mentre là fuori c’è gente che si fa seghe mentali sul suo essere vivo e morto contemporaneamente. poi arriva qualcuno e apre la scatola.
noraneko, finché rimane nella scatola, è viva. magari è un po’ incasinata con radiazioni e veleni vari, ma la sua realtà è ferma nel momento in cui è viva. se va dallo sciamano, gli dà la possibilità di aprire la scatola. e scoprire se è viva, oppure morta. noraneko di fisica non ha mai capito niente, ma di vita e morte qualcosa ne sa. ergo, noraneko non andrà dallo sciamano.

giovedì 28 gennaio 2010

tempi di cottura

che tra me e manolo fosse finita l’ho capito il giorno che non ha fatto scuocere la pasta. manolo credo sia l’uomo che mi abbia amata di più. era un amore tangibile: era così forte che quasi si toccava, era come l’aria quando è troppo calda o troppo fredda, che diventa quasi solida, la respiri e la senti proprio fisicamente, nel naso, in gola, nei polmoni, e a volte fa male.
comunque io andavo a casa sua e lui cucinava, e poi si perdeva a guardarmi. e regolarmente la pasta si scuoceva. sempre. era una cosa assurda, ma non siamo mai riusciti a trovare un rimedio; e ci scherzavamo su, e ci impegnavamo anche, ma non c’era verso. le alternative erano, o cucinavo io, o si andava a mangiare fuori, o ci si concentrava su ricette che richiedevano qualche ora di cottura. in genere si andava a mangiare fuori, e ogni tanto durante le mie passeggiate per la città bianca incontro tutti i ristoranti dove non sono più voluta entrare, qui è dove abbiamo cenato quella sera che lui si è scordato il bancomat e abbiamo rischiato di dover lavare i piatti, qui è stata la grande abbuffata prima del decreto anti-bistecche, qui ci siamo andati con l’amico di bologna, qui è stato quella volta che, qui invece quando.
poi comunque abbiamo attraversato un brutto periodo e poi un giorno io sono andata a casa sua, lui ha cucinato, io ho assaggiato la pasta e ho detto, non è scotta, e lui ha detto, già, stavolta non è scotta.
e sarebbe potuta finire così e sarebbe stato meglio, un po’ da film magari, però in fondo ci eravamo già detti tutto, e invece abbiamo recitato fino all’ultimo un copione pieno di scene inutili e battute vuote. un bravo regista alla scena della pasta non scotta avrebbe detto stop, buona la prima.
niente, ci pensavo prima mentre cucinavo il riso, parboiled, e mi sono chiesta, ma non potrebbero fare pure la pasta, parboiled? che così, magari.

mercoledì 20 gennaio 2010

poligoni irregolari

nel centro della città bianca c’è una specie di triangolo delle bermuda al contrario. uno dei vertici si trova in una strada abbastanza frequentata; uno, in una via laterale; gli altri, non saprei; e non so nemmeno quanti siano, perché non so se si tratti di un triangolo o di un poligono irregolarissimo, con lati e angoli sparpagliati qua e là a coda di gatto.
quello che so è che lì le persone riappaiono. il tuo migliore amico del liceo; la tua amica che aveva deciso di trasferirsi all’estero col marito; gli amici che erano rimasti inghiottiti dallo scorrere della storia, la loro, la tua, è uguale. passeggi in quella zona e le persone che sono scomparse dalla tua vita all’improvviso sono lì. camminano immerse nei propri pensieri, uno zaino su una spalla, i capelli molto più lunghi e molto più bianchi; si vestono in un altro modo, chiacchierano al cellulare, hanno ancora lo stesso sguardo; sono loro. e non ti vedono. e tu devi far finta di non vederli.
in realtà non ne sei sicura, non sai se questo poligono abbia delle leggi precise da rispettare. ma con gli anni, perché questa storia va avanti da anni, ti sei convinta che sia così. loro non possono vederti, e infatti non ti vedono mai. a te, non sai per quale motivo, è concesso di vedere loro, ma a patto che tu non interagisca. e non ti pesa affatto. in realtà, ti piace che sia esattamente così. ti piace seguirli con lo sguardo, notare come si vestono adesso, come portano i capelli, quanti anni dimostrano, se sembrano preoccupati o felici; una volta, uno, lo hai proprio seguito fisicamente, eri curiosa di vedere dove andava, lo hai osservato entrare in un posto che conosci. ti piace guardarli, saperli ancora vivi, contare gli anni e i ricordi, fare il gioco delle differenze con le immagini passate; ma nient’altro. non vuoi parlare con loro. non vuoi che ti riconoscano. non vuoi che ti vedano. hai già un passato di cui occuparti, ed è il rametto di geranio sul balcone. è bellissimo, e basta così.

lunedì 4 gennaio 2010

quello che non c’è

è da qualche giorno che mi circola tra i neuroni una domanda a cui non riesco a trovare risposta (no, non è la domanda sulla vita l’universo e tutto quanto, quella risposta la so). è che non riesco a capire cosa sia una certa cosa. potrei chiedere alla pecora-drago, ma mi arriverebbe sarcasmo a secchiate. l’albero di natale nano è troppo cinico, il bastone della pioggia e la poltrona verde sono troppo buoni, la possibile risposta di gatto la temo. così ho deciso di fare una cosa un po’ da film (scemo. un po’ da film scemo).
sono uscita. sono passata dalla tabaccaia acida. le ho chiesto un pacchetto di sigarette, la ricarica metrebus, cos’è quella cosa. lei mi ha dato le sigarette, mi ha ricaricato la tessera, mi ha risposto, guarda, a quest’ora di lunedì mattina non ne ho proprio idea. è una cosa che o c’è o non c’è.
una cosa che o c’è o non c’è non è una spiegazione, ho pensato. la maggior parte delle cose che o ci sono o non ci sono, comunque si sa cosa sono.
sono salita sul trenino del far-west, poi sulla metro. mi sono guardata attorno. in effetti a una certa ora di lunedì mattina la gente non dà proprio l’idea di sapere la risposta. prima di entrare in ufficio sono passata dalla barista attonita (la barista attonita è attonita dalla settimana scorsa, da quando mi ha sentita invitare una certa persona ad andare in un certo posto per due volte di seguito. da allora è rimasta in modalità attonita). le ho chiesto un cornetto al cioccolato che dovevo portare a un collega, e poi le ho fatto la domanda. lei mi ha guardata ancora più attonita, poi mi ha detto, mi è dispiaciuto vederti così ferita, l’altro giorno. off topic, ho pensato. però ha risposto il suo collega: è una cosa che o lo sai o non lo sai. lo so, cioè, non lo so, appunto.
mentre stavo entrando nell’edificio ho incrociato uno dell’ufficio marketing. stavo per chiederlo a lui, poi mi sono detta che fare una domanda del genere a uno del marketing sarebbe stato inutile. però, insomma, questo è razzismo, poi non si sa mai, proviamole tutte. allora gliel’ho chiesto. lui ha spalancato gli occhi e mi ha risposto, eehhh? lo sapevo che era meglio lasciar perdere quelli del marketing.
dentro, mi sono trovata davanti misery (misery è una mia capa. dal soprannome si può intuire la magnificenza dei nostri rapporti). ho pensato che anche al provarle tutte c’è un limite. a lei non l’ho chiesto.
poi ho visto fm. una volta, nemmeno troppo tempo fa, fm sarebbe stata la prima persona a cui l’avrei chiesto. forse l’unica. invece oggi l’ho guardato, gli ho sorriso e sono rimasta in silenzio. così va.
dopo un po’ sono uscita a fumare. fuori c’era quello che attualmente detiene il titolo di mio collega preferito. mi ha guardata e mi ha sorriso come mi sorride quasi sempre (se non l’hanno appena fatto pesantemente arrabbiare). l’ho chiesto a lui. lui non si è sorpreso né niente, ha continuato a fumare guardando il parcheggio, poi ha ripetuto piano la mia domanda. gli ho detto, è che mi rispondono o lo sai o non lo sai, o ce l’hai o non ce l’hai, ma nessuno mi spiega cos’è. mi ha detto, perché non ce l’hanno. e quindi non lo sanno. stavo per chiedergli, ma tu...?, poi ho visto la sua espressione stanca mentre dava l’ultimo tiro e spegneva la sigaretta. no. nemmeno lui.