giovedì 31 dicembre 2009

vulcaniana no, però creativa

io è già parecchio tempo che cerco di diventare vulcaniana, ma non è che stia ottenendo grandissimi risultati. è che mi distraggo; e poi pesa su di me la maledizione del sono intelligente ma non mi applico. ieri, per dire, ho ripetuto per due volte la frase “va’ a farti fottere” a una certa persona, che non è un atteggiamento molto vulcaniano (invece aggiungere subito dopo “tu sei un cretino” è stato già più vulcaniano, perché a quel punto, a logica, non avrebbe cambiato molto la situazione) (però mettersi a urlare in mezzo alla strada “non hai capito un cazzo” è stato meno vulcaniano, perché i vulcaniani non urlano) (poi passare la sera a piagnucolare perché ero offesa (sì, ero offesa io) non è stato vulcaniano per niente, lo so).
in effetti, questo è stato forse l’anno meno vulcaniano da quando cerco di diventare vulcaniana. però ho raggiunto un barlume di consapevolezza (che come al solito era già stato espresso prima e meglio da qualcun altro). ecco, io ho scoperto di essere una timida creativa. perché la maggior parte dei miei casini non derivano, come ho sempre pensato, dal chiedermi cosa ci faccio io qui. no.

«Vai a una festa. Entri. Non c’è musica. Stanno tutti zitti e ti stanno guardando. Tu avresti voglia di piangere, ma non lo fai. E così facendo ti trasformi in un timido squallido. Ti metti di profilo accanto alla finestra, fumi, ti schiarisci continuamente la voce e al limite controlli nevroticamente se ti sono arrivati messaggi al cellulare. Ed è qui l’errore. Se entri a una festa e hai voglia di piangere, piangi! Pensa: tu in mezzo a una festa di idioti che ti disperi, piangi, ululi addirittura. Si sentiranno tutti immediatamente in colpa, completamente inadeguati, impreparati: in una parola: timidi. A quel punto tu alzerai gli occhi, gonfi di lacrime, guarderai quei bastardi uno a uno finché non avranno alzato lo sguardo e poi urlerai con quanto fiato hai in gola: "E’ una festa di merdaaaaaaaaaaaa!".
Ecco: la differenza tra il timido squallido e il timido creativo sta tutta qui: il primo pensa continuamente: “Che cazzo ci faccio io qui. Che cazzo ci faccio io qui. Che cazzo ci faccio io qui”. Mentre il timido creativo, al contrario, pensa: “Che cazzo ci fate voi qui!”».
(massimo coppola, brand:new. minimum fax, 2002).

martedì 29 dicembre 2009

questa forse non è una storia vera (aka l’uomo che non mi ha fatto dormire sul pullman per lugano)

scende dall’aereo a linate. sale sul pullman. è stanchissima, vuole solo chiudere gli occhi, le bastano cinque minuti di quiete. alla prima fermata la maggior parte dei passeggeri scende, il pullman resta quasi vuoto. sospira. ora può allungarsi su un paio di sedili ed estraniarsi dal mondo fino a lugano. mentre sta appallottolando la giacca a forma di cuscino, dal bordo dello schienale di un sedile lontano dal suo sbucano dei capelli scuri e ricci, e una voce giovane dice, siamo rimasti pochissimi, sediamoci vicini e conosciamoci. bravi, sedetevi vicini e conoscetevi, pensa mentre continua a piegare la giacca. gli altri si spostano, iniziano a presentarsi. lui si volta verso di lei, si accorge che non si sta muovendo, anzi, si sta sistemando per restare lì dov’è. lei vede un’ombra di delusione che lo scurisce, mentre lui balbetta, ah, tu, no...? eh, io, no, pensa. e poi, ma a te che importa, che nemmeno sai chi sono. poi riconosce l’espressione. un timido preso in contropiede da se stesso in un momento di distrazione. l’apice della vulnerabilità umana. sospira. prende la giacca, si rassegna, si va a sedere con gli altri, si presenta. lo odia per tutto il tragitto. arrivano a lugano. scendono dal pullman. non si rivedono più.
dodici anni dopo. lei nel frattempo ha scoperto chi era lui. lui nel frattempo sta diventando famoso. ogni volta che ha letto o sentito il suo nome, in quei dodici anni, ha pensato, l’uomo che non mi ha fatto dormire sul pullman per lugano. le sta ancora antipatico. deve incontrarlo per lavoro. si chiede come sia diventato. lo sente per telefono. un timido preso in contropiede da se stesso che sta diventando famoso suo malgrado. l’apice dell’incomprensibilità umana. si vedono. lui ha freddo, vorrebbe solo stare in un posto riparato e al caldo. lei, che ricoperta dal ricordo è diventata atermica, invece vuole aria e spazio. glielo chiede con la stessa espressione che aveva lui dodici anni prima; lui sospira, prende la giacca, si rassegna. passano mezz’ora ai tavolini all’aperto di un bar nell’angolo più freddo della zona, in quella che verrà registrata come la mattina più gelida dell’anno, nella sua città. la odia per tutto il tempo. poi si salutano e lei va via. si chiede se d'ora in poi lui leggerà il suo nome pensando, la donna che mi ha fatto venire una polmonite a roma. tra dodici anni tocca di nuovo a lui.

martedì 22 dicembre 2009

lo zen e l’arte della preparazione della maionese

il mio scrittore preferito è un esperto in maionese impazzita; però non capisce niente di crema al mascarpone (fosse perfetto, non sarebbe il mio scrittore preferito). comunque il segreto è smettere di aggiungere e limitarsi ad accogliere. il secondo segreto, è che va bene anche se non c’è nulla da accogliere; questo dettaglio gli era sfuggito (è uno scrittore parecchio imperfetto, in effetti).
io ho la febbre.
ci sono persone a cui andrà benissimo, altre che ci resteranno male, altre ancora che non se ne accorgeranno nemmeno. il terzo segreto è che tutto ciò non provocherà sciagure né cataclismi né in effetti proprio niente. quanto al quarto segreto, che permetterebbe di segnare uno storico vicolomalgrado-fatima 4-3, al momento resta segreto.

giovedì 17 dicembre 2009

fiori viola, fiori di wakaranai

futuro finalmente ha fatto i fiori.
(è la settimana dell’uso della f).
i petali sono viola di una viola violezza, con un sottile bordo rosa.

(che poi cambiare blog è come girare il sequel di un film mai finito. futuro è uno dei tre rametti di geranio che quest’estate hanno fatto compagnia a gente che non si sentiva proprio benissimo. passato è stato il primo ad ambientarsi e a mettere fiori su fiori, ma è rimasto un po’ piccolino; però ce la fa. futuro ha tenuto un profilo basso. di secondo nome fa understatement. nemmeno un accenno di bocciolo, ma mesi a prendersi il suo spazio e il suo tempo. ora è un signor geranio. presente ha cambiato dimensione, e anche qui nulla di nuovo. sul presente siamo sempre state inadatte, da queste parti).

piove. futuro ha i fiori viola. l’oroscopo di brez, la settimana scorsa, diceva che dovevo imparare a prendermi il mio tempo. si è scaricata la batteria dell’orologio, e non l’ho ancora cambiata. non so che ore sono, e questo è l’unico modo che ho trovato finora per prendere tempo. ce ne saranno sicuramente di migliori, non dico di no. si accettano suggerimenti.

l’albero di natale nano tace perché questo è il periodo in cui ci si aspetta che parli. non cambierà mai. del resto, chi nasce albero di natale nano, non muore palma.

giovedì 10 dicembre 2009

mr. arkadin

e dopo tanto tempo ho attraversato il ponte per il quartiere aldilàdelfiume. sono scivolata attraverso le macchine bloccate nel traffico e sono atterrata sul marciapiede. è sempre varcare il confine. pochi metri, il primo ubriaco. questo posto non cambia mai ed è rassicurante, nella bellezza mischiata alla paura. ho sfiorato autoctoni e turisti e clochard e punkabbestia e ho svoltato a destra e poi di nuovo a destra, ed era già quel quasi buio da pomeriggio d’inverno. un uomo fumava sulla soglia di un negozio. più avanti la prima libreria, fuori un commesso che sistemava le decorazioni natalizie. poi quella che cercavo. e il libro che cercavo. che non c’era. e lei mi ha ringraziata perché le interessa e lo ordinerà. e io stavo per affilare una risposta sul grazie, la prossima volta che non avrò speranze di trovare un libro verrò a consigliarlo a voi, ma poi ho pensato a quanto mi mancano le librerie vere, quelle che non sono catene di montaggio pubblicità cliente commesso cassa e poi il nulla, quelle da leggende metropolitane con il libraio che conosce capisce e consiglia. e allora mi è piaciuto essere stata io a consigliare a te, e mi è piaciuto che fuori ci fosse una signora con un cucciolo e che tu sia corsa a vederlo e a fare, tu, le feste a loro. niente risposte affilate, scusa. e poi sono tornata sul viale e cercavo di capire perché quei metri li associassi al diconiglio, il diconiglio è via giulia, campo de’ fiori, il tappezziere con la macchina fotografica antica, ma poi ho avuto un flash, noi abbiamo cenato qui, una volta. molto tempo fa, prima che. ho pensato a come io e la vita ci bilanciamo nel presente, quando lei spinge in avanti e io tiro indietro, quando lei spinge indietro e io tiro avanti. poi dopo il ponte c’era ancora il centro sotto natale al buio, l’unico periodo dell’anno in cui questa città mi fa sentire estranea, in cui guardo le luci e non vedo niente. e sul corso ho sentito suonare un sax e ho sperato che fosse il mio musicista preferito, non è il più bravo, è solo che l’ho adottato una volta in una piazza perché io ero triste e lui stava suonando la musica giusta. giorni fa era davvero fuori forma, mi sono preoccupata, invece stasera suonava bene, strangers in the night, poi ho pensato, lui non fa questa musica. e infatti ho seguito le note e non era lui. stamattina mi hanno regalato un cd e due paia di occhiali da sole. gli occhiali sono splendidi. il cd, sono canzoni di quelle che fanno male. domani gli dico che sono bellissime.

venerdì 4 dicembre 2009

metamente

ieri sono passata dal veterinario e gli ho detto, cimurro. poi ho guardato bene, non era il veterinario, era il suo assistente. si somigliano un sacco, a parte il fatto che il suo assistente non si mette a urlare appena mi vede, né sbatte la testa contro la scrivania, né si rinchiude dentro l’armadietto dei medicinali. insomma, non fa niente, si limita a guardarmi e annuire. gli ho chiesto che fine ha fatto il veterinario, mi ha risposto che, vista la stagione, prevedeva che sarei arrivata a dire, cimurro, e si è preventivamente fatto rinchiudere in una clinica per malattie psichiatriche. allora ho guardato fisso l’assistente e ho ripetuto, cimurro. niente, non reagiva. ho provato anche col punto esclamativo, cimurro!, ma non c’è stato verso. non si è smosso nemmeno con, cimurro?, e tutte le altre variazioni possibili con la punteggiatura. questa cosa mi ha un po’ depressa. poi quando ero arrivata a cimurro tra le parentesi giapponesi e non sapevo più cosa usare, serenamente mi ha chiesto, cimurro tu, il bastone della pioggia, l’albero di natale o l’elefantino viola? io ho pensato, cimurro tu e tutti i tuoi cimurrini. poi ho confessato, io.
invece l’albero di natale nano sta benissimo, nonostante si stia avvicinando il natale. l’ho sorpreso che cantava canzoni di pasqua. gli ho chiesto come le conosce, dice che ha fatto le elementari dalle suore. gli ho detto che non può essere pasqua, perché qui funziona tutto al contrario. le piante sul balcone come ogni anno stanno mettendo i fiori, quindi sono convinte che sia primavera, quindi è quasi natale. perché la primavera, natale e pasqua sono luoghi della mente. l’albero di natale mi ha chiesto, sì, ma di quale mente? io sono rimasta interdetta. e lui ha insistito, ogni anno dici che sono luoghi della mente, ma non hai mai specificato di quale mente. ci ho riflettuto su, ho detto, una meta-mente, e sono andata a scrivere una lettera a fm che poi ho riposto in un luogo della metamente. e che però ha funzionato.

martedì 1 dicembre 2009

nuotando nell'aria

e quando sono rimasta ferma, in salita, col vento contro che mi spingeva indietro e io che puntavo in avanti e ci siamo trovati in stallo, ho pensato che nuotare nell’aria è quello. che quando ero piccola non esistevano bandiere rosse e da noi giù i bagnini non ci sono mai stati, e c’era solo che si sapeva che il mare nostro non lo dovevi sottovalutare che non sembrava ma ti fregava, come ne aveva fregati tanti. fregati, poi. mica ha mai mentito. però da piccoli c’erano i grandi che ti sorvegliavano e non ti facevano scendere in acqua in quelle giornate che si sapeva che non saresti risalito su, e al limite ti riacchiappavano per i capelli, per il costume, per quello che c’era, se facevi un passo di troppo. poi però si cresceva e al mare ci si andava da soli e allora c’era la voglia non di sfidare il mare, che l’avevamo capito, l’avevamo nel corpo, che non lo si doveva sfidare, il mare. ma noi stessi, sì. era quella la sfida. e avevamo abbastanza anni di mare da riconoscere il momento subito prima del grosso guaio: il momento di stallo. quando si spingeva per tornare a riva e si restava esattamente fermi. e a quel punto era un gioco di intelligenza e non di muscoli, i muscoli non ce la potevano fare, era lucidità ed esperienza, fai forza per non farti portare troppo indietro, ma spingi tutto mentre ti butta avanti, hai poche possibilità, poi ti stanchi e muori. che poi, anche fuori dal mare, va sempre così: ti stanchi e muori.
allora l’altra mattina ero in stallo col vento e ho pensato al mare, e ho pensato, sto nuotando nell’aria, e ho pensato che con la canzone dei marlene kuntz non c’entrava niente. e poi mi sono ricordata che effetto fa l’amore che finisce e il volo libero sugli anni andati ormai e sentire qui chi non c’è, e ho pensato che invece c’entra. che è nuotare controvento e restare in stallo e, se non sai come si fa, se non sai fare forza e poi spingere e buttarti avanti, è stancarsi e morire.

venerdì 20 novembre 2009

smagonamento e fastidio

io mi do fastidio. mi do fastidio quando mi incarto dentro me stessa nemmeno fossi una ricetta al forno, e infatti mi sale il caldo, e giro sul grill della mia ansia. mi do fastidio quando smagono per cose che non esistono, cose che esistono, cose che forse ma non è quello il punto. mi do fastidio quando mi immagino le scene e me le immagino negative, devastanti, catastrofiche, e tutta questa fantasia che madre natura ha graziosamente elargito e mi sostiene quando guardo nel vuoto all’improvviso mi si ritorce contro e mi azzanna. mi do fastidio quando mi aggrappo alla razionalità e lei mi dà ragione ma non del tutto e a me basta un millimetro di dubbio per creare un everest di certezze apocalittiche. mi do fastidio quando so che non è vero ma in fondo non lo so. mi do fastidio quando so che è vero ma non mi ci rassegno. mi do fastidio quando delle migliaia di frasi che mi ha detto una persona io devo ricordarne proprio una, proprio quella. mi do fastidio perché non mi do pace, non mi do tregua, mi stresso, mi assillo, mi dichiaro guerra. mi do fastidio anche quando mi consolo, perché non ci sarebbe nulla di cui dovermi consolare se non di me stessa, e mi do fastidio quando mi proteggo perché non c’è nulla da cui proteggermi se non da me stessa, e mi do fastidio quando mi do ragione nel torto che mi sono creata, e mi do fastidio quando organizzo strategie di difesa da attacchi inesistenti e vie di fuga da trappole intangibili e giustificazioni per errori che non ho commesso. io mi do fastidio, mi do.

mercoledì 18 novembre 2009

coscienze andate perse (come lacrime nella pioggia, ovviamente)

una volta mi dilettavo in flussi di coscienza. ora non più, per motivi pratici: la mia coscienza è stata avvistata al largo dei bastioni di orione, dove peraltro ha incontrato il mio pancreas. pare che ogni giovedì sera si vedano per un pokerino e una telesina tra amici; come vele usano quelle delle navi da combattimento in fiamme. che non è proprio comodissimo, ma sicuramente è molto scenografico.
partecipa anche il mio cellulare, quindi il motivo per cui non sto rispondendo né alle telefonate né agli sms non è che non mi va, che sono stanca, che ho la classica botta d’egoismo, che mi interessano solo le persone nuove perché quelle vecchie in questo momento nulla aggiungono e qualcosa tolgono e alcune di loro oltretutto si sono rivelate inutili, ridicole e mediocri, no no. è che ho il cellulare in orbita, davvero. è rimasto chiuso nell’autolavaggio della deep space 9, e ha un auricolare che gli fa contatto con la batteria, e in più gli è entrata una bruschetta betelgeusiana nel display.
va bene, lascio l’ascia. lascio l’ascia, considero la rabbia, resto immobile mentre mi passa sopra e attraverso e va via, e faccio come l’anno scorso, mi iscrivo a un corso di ubriachezza colta (esiste, eh. non si chiama esattamente così ma esiste davvero. e io mi ci iscrivo davvero), vado al cinema, qualcosa mi invento. ah, sì. mi farò cacciare dai centri commerciali e cercherò laghi di palline colorate dedicati a persone che di esami di maturità ne hanno superato solo uno. e pure con un voto basso.

sabato 14 novembre 2009

tutte le socievolezze si somigliano; ogni solitudine è sola a modo suo

se la pecora-drago avesse un cellulare, la notte la chiamerei per dirle che non mi va di andare a dormire perché non mi va di svegliarmi. la pecora-drago però non ha un cellulare, e anche in questo ha ragione lei; così oltretutto non rischia di essere svegliata da una che non ha voglia di svegliarsi.
una volta a settimana, in dormiveglia, seguo un seminario della sciamana-vichinga sul lancio delle asce metaforiche. in realtà non ho ben capito se sia metaforico il lancio o siano metaforiche le asce, e sospetto che faccia una certa differenza. sospetto anche che la differenza la notino più che altro quelli a cui arriva addosso l’ascia. la sciamana vichinga sostiene che si tratti di un percorso necessario per scaricare metaforicamente la rabbia senza farsi male. cioè, si fa finta di prendere un’ascia, si fa finta di lanciarla, dopodiché ci si può accostare con tranquillità (disarmati) alla persona con cui siamo arrabbiati. e a quel punto la si prende a calci, suppongo, non lo so; credo che mi stia sfuggendo qualcosa. per il resto sono indifferente, in alcuni periodi le persone passano nella vita in modalità avanti veloce, come sulla cassetta videoregistrata di una folla che scende da un treno.
poi ci sono anche quelli che trovano la serenità contemplando gli acquari. non specificano mai se i pesci dentro abbiano un loro ruolo in tutta questa faccenda oppure siano ormai secondari rispetto all’idea stessa di acquario. io, la serenità, no, ma se vale lo stesso, ho trovato l’errore nel gioco della settimana enigmistica: pretendere di essere perdonati da una persona innamorata di te è una cosa che, in mancanza di altre parole sicuramente più adeguate ma che al momento non mi vengono in mente, definirei sciocca.

giovedì 5 novembre 2009

traslochi

il bastone della pioggia sta chiacchierando col caleidoscopio. la poltrona verde guarda fuori dalla finestra. gatto dorme sulla poltrona rosa antico. lampada e cuscino del divano leggono. l’albero di natale nano osserva sarcastico e non favella. l’elefantino viola controlla se si intona alle pareti. direi che ci siamo tutti.
come dopo ogni trasloco, tra poco spunterà dal nulla del polistirolo che passerà le prossime settimane a crescere e moltiplicarsi.
come dopo ogni trasloco, all’inizio è tutto nuovo e rimbombante di echi e strano, e se cammini di notte al buio vai a sbattere contro spigoli che di giorno non ci sono.
come dopo ogni trasloco, casa vecchia ti manca assai e ci passerai spessissimo, nei prossimi giorni, e a volte entrerai, a volte guarderai da fuori.
come dopo ogni trasloco, e però questa è casa tua. nuova e strana e vuota e ancora scomoda e sconosciuta, ma casa. tua.

mercoledì 4 novembre 2009

(bloccata in una lunghissima, eterna sera sul lungomare di una città senza mare).