mercoledì 28 dicembre 2011

incipit 3

siamo seduti uno di fronte all’altra e io mi sto chiedendo qui come ci sono arrivata. gli sei affannosamente trotterellata dietro per tre stanze dopo essere schizzata fuori dall’ascensore, sghignazza la proiezione di me stessa, comodamente appoggiata a una parete dell’ufficio. e poi hai rischiato di farti trucidare dalla segretaria.
sospiro. il genio è quel tipo di uomo. quello che, avendo da fare in media per 36 ore al giorno, logicamente accelera. tutto. anche il semplice uscire da un ascensore, entrare in un ufficio, divorare il corridoio, lanciare al volo il cellulare alla segretaria dicendole di mandare una mail a quell’indirizzo scritto lì, riprendere subito il cellulare dichiarando che è scritto piccolo e che lei non ci vede, rilanciare il cellulare a me ordinando: dettaglielo tu che sei giovane e lo leggi, voltare le spalle nell’esatto momento in cui la segretaria, che in effetti avrà solo una decina d’anni più di me, mi rivolge uno sguardo di puro odio e di promettente futura vendetta, mentre io mi dipingo in faccia un’espressione tipo io che c’entro che vuoi da me l’ha detto lui e, ubbidiente, scandisco con tanto di spelling, a voce alta e chiara, sia mai che oltre che cieca sia pure sorda.
e poi lo seguo mentre schizza in una stanza che però non va bene che secondo lui fa freddo, e poi in un’altra stanza ancora che, ecco, siediti. mi siedo. fumi? fumo (e anche se non fumavo, iniziavo adesso). mi guarda. vediamo di capire questa che vuole e cosa posso farne di lei. l’interrogatorio inizia a raffica di mitra, e io cerco di tenere botta, mentre ogni tanto lancio uno sguardo allarmato alla proiezione di me stessa che commenta serafica, beh, se sopravvivi puoi darti ai cento metri.
sono in affanno mentale, adesso. sono abituata ad essere leggermente più veloce delle persone con cui lavoro. ma quest’uomo, perdìo, ha una capacità di elaborazione dati al microsecondo che nemmeno il processore di un computer della nasa. sto ancora a metà della prima frase di una risposta che lui è già schizzato tre discorsi più avanti, e io mi sto perdendo. in pochi secondi ha un’idea chiara del mio curriculum, delle mie potenzialità, della mia personalità, del mio passato e del fatto che, del suo campo, io non so niente. non ho mai lavorato in quell’ambito. nel settore genio, la mia esperienza è zero. e qui lo vedo rallentare per un attimo, sta dubitando. sì, talento ha talento, ma che ci faccio io con questa? qui mi gioco tutto. riprendo fiato, e passo all’attacco io. tiro fuori dalla borsa un altro progetto, oltre a quello che gli ho mandato per mail quando gli ho chiesto il colloquio. questo è ancora abbozzato, ma è tarato su di lui. esiste per affascinarlo, è stato creato appositamente per sedurlo. e poi gli spiego, gli impongo, che io devo lavorare con lui. devo. che sono perfetta per lui. e, ormai calibrata sui suoi ritmi, in due minuti gli rovescio addosso qualche migliaio di parole, forza, disperazione, entusiasmo e ferma, assoluta e inderogabile volontà. io. devo. lavorare. con. lui. gli posso essere utile. davvero. io sono davvero perfetta per te. e lui, placido, risponde, lo so. ho una certa, come dire, telepatia, io. guardo perplessa la proiezione di me stessa. beh, poteva usarla prima di impallinarti con mille domande in tre minuti, la certa telepatia, commenta lei caustica.
e poi il genio mi guarda, e fa la domanda. quella più ovvia. l’unica a cui non posso rispondere. ma tu, perché hai lasciato il tuo lavoro e sei venuta da me? ecco, mi dispiace, ma ora io ti devo mentire. mi conosci solo da pochi minuti, sto cercando disperatamente di farti una buona impressione, come faccio a dirtelo. che sono qui perché tre mesi fa l’universo in cui vivevo è imploso.

venerdì 23 dicembre 2011

la prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento

un emigrante resta emigrante per tutta la vita. continuerà a emigrare, ogni volta che tornerà a casa, ogni volta che lascerà casa di nuovo, perché il termine casa per lui sarà, nel migliore dei casi, sdoppiato; quando non annullato, privato di senso.
io mi ricordo un senso di sonno e sicurezza e freddo. partivamo col treno notturno, io e i miei nonni e mio cugino. la grande stazione della città in cui si era arrivati come seconda vita era la partenza; la piccola stazione del paese da cui si era partiti era l’arrivo. a due, tre, cinque anni è facile che fai confusione, che non ti è molto chiaro se stai partendo o stai arrivando, se casa la stai lasciando o ci stai tornando. poi, crescendo, scopri, come per moltissime altre cose, che per gli adulti è uguale.
comunque partivamo col notturno e siccome gli emigranti emigrano per sempre, avevamo con noi valigie e ceste e buste e borse e tutto che nemmeno fossimo stati quaranta, e invece eravamo in quattro, a volte solo tre. e siccome la grande stazione della capitale era davvero troppo grande e troppo aperta e troppo asettica e troppo grigia, allora era buio anche quando c’era ancora luce, ed era freddo anche se era estate. però andava bene, perché c’erano tutte quelle valigie e ceste e quindi un’intera vita che veniva con noi, e soprattutto c’era la parlata, che appena arrivati al binario era all’improvviso quella di sempre. funzionava così, che per mesi stavi nella città grande e parlavi la lingua della città grande, e poi una sera ti prendevano, ti portavano nella grande stazione, spostavano le valigie e i pacchi e le ceste sul binario del treno verso giù, e all’improvviso intorno a te si materializzavano decine, centinaia di persone che parlavano la lingua di giù. che era come essere già a casa, perché nella partenza, allora, casa doveva essere quella.
dove stava tutta questa gente nel resto del tempo? vivevano sempre al binario della stazione? non importava, andava bene così. siccome parlavano la lingua giusta, sapevi che si sarebbero comportati nel modo giusto, una volta saliti tutti sul treno. noi non viaggiavamo nei vagoni letto che costavano troppo, noi partivamo di notte ma stavamo sui sedili normali. io un vagone letto, ancora adesso, non l’ho mai visto. e negli scompartimenti normali c’era tutta quella gente che era la gente normale, che era diversa dalla gente della grande città dove avevi vissuto fino a poco prima e dove forse non tornavi, non lo capivi mai se si partiva per un po’ o si partiva per sempre. ma quella era gente normale e quindi aiutava i nonni a caricare tutte le valigie e i pacchi e le ceste e le borse e i nipoti, e poi ti parlavano normalmente, anche quando ti parlavano strano era normale. perché, picciotta, era una parola strana per la nostra provincia dove non si dice picciotta, si dice picciridda, e quindi era una parola strana, ma era lo stesso una parola normale perché sapevi che era il modo di dire di gente uguale, solo un po’ più giù col treno. quelli che scendono dopo dicono picciotto, noi che scendiamo prima diciamo picciriddu. nella città grande dove abbiamo vissuto finora e chissà se ci torniamo, non dicono in nessuno dei due modi, e quello è essere strani davvero.
e il viaggio era lunghissimo, e un po’ dormivo, ma soprattutto mangiavo, che siccome quella era gente normale la prima cosa che si chiedeva era se la picciridda aveva fame e perché non mangiava, o se voleva da bere, o se voleva giocare. e poi volevano sapere se me lo ricordavo il mare, e io lì mi ricordo che mi illuminavo, che, sì, certo che me lo ricordavo, il mare. me lo ricordavo così bene che dopo ore e ore di viaggio, anche se magari fino a un secondo prima stavo dormendo, aprivo gli occhi immediatamente quando sentivo il rumore di villa. perché villa san giovanni era un rumore prima ancora che una vista, e poi diventata un odore, era l’odore del mare che già si sentiva. e non ci spaventava mica tutta quella serie di rumori strazianti del treno che entra a pezzi nel traghetto (draghetto, dicevo io, che poi per tutta l’infanzia non ho mai capito che problema ci fosse a essere mangiati dai draghi nelle favole: il drago ti mangia e tu semplicemente torni a casa), e non ci spaventava mia nonna in ansia che non dovevamo perderci nel draghetto e dovevamo ricordarci la porta e la scala giusta che altrimenti come ci tornavamo sul treno, sul vagone nostro. si saliva e si guardava e quello era il nostro mare, e restavamo sul ponte, e faceva freddo, a quel punto, a quell’ora, davvero, e aspettavamo finché non si vedeva la madonnina dorata del porto di messina, e quando la vedevi eri arrivato. certo, dovevi tornare nella pancia del draghetto e poi il treno aveva tutto un altro pezzo di viaggio da fare, non eri proprio arrivato arrivato, ma anche se non eri proprio arrivato arrivato, eri in qualche modo arrivato davvero.

mercoledì 16 novembre 2011

incipit 2 - nove anni prima

il mese era lo stesso. ma la città bianca era diversa. erano ancora i tempi in cui esisteva un’estate della città bianca, quattro mesi di cultura in cui ogni sera potevi scegliere fra decine di concerti, spettacoli, presentazioni, film. era tutto così pieno e assodato e normale che non ci avrebbe creduto nessuno, se una cassandra avesse previsto le estati di qualche anno dopo. quando la nuova marcia sulla città bianca si sarebbe tradotta nella desolazione estiva di un niente abbandonato, silenzioso, buio e insicuro.
quella sera lì, c’era la presentazione di un libro nella piazza principale del quartiere aldilàdelfiume. e lei c’era andata da sola, perché lo amava tanto quello scrittore, e non lo voleva condividere con nessuno.  si era seduta in terza fila, nel gruppo di sedie a sinistra, verso l’esterno. la presentazione era iniziata. lo scrittore parlava, e a un certo punto si era interrotto, per salutare qualcuno in fondo. qualcuno che lei da lì non vedeva. qualcuno di importante, si era capito dal tono e dall’appellativo con cui gli si era rivolto lo scrittore, che lo aveva invitato a salire sul palco. lei, dalla sua sedia esterna in terza fila, aveva aspettato che quel qualcuno, che non era stato nominato, passasse, per scoprire chi era. e quando finalmente era passato, diretto verso il palco, aveva pensato: wow, il genio. e subito dopo: wow, in giacca e cravatta in una sera così calda, vedi come la gente importante non abdica mai al suo ruolo, è per questo che è importante. ok, anche per questo.
nove anni dopo, si sarebbe ancora ricordata come era vestito, che taglio di capelli aveva, tutto quello che aveva detto sul palco, ma soprattutto lo sguardo con cui l’aveva fissata, dopo. perché, finita la presentazione, lei aveva indugiato per un attimo, accanto al palco. il libro lo aveva già, non le serviva comprarlo, né le andava di farselo autografare dallo scrittore, per scambiarci tre parole inutili che lui avrebbe scordato subito dopo. lei aveva indugiato per un attimo accanto al palco, mentre scivolava via, per guardare lui, la persona importante. e lui, il genio, se ne era accorto, e l’aveva fissata. bloccandola. e c’erano stati lunghissimi secondi di tempo immobile, in cui lui la fissava e lei era rimasta sospesa, di tre quarti, sconcertata da quello sguardo di attenzione totale e quasi feroce che l’aveva investita così.
e poi si era sganciata ed era sgattaiolata via.
e non lo aveva più rivisto.
finché, nove anni dopo, la sua vita era stata molto semplicemente, completamente, rasa al suolo, e mentre guardava il deserto che la circondava, lei aveva deciso che era arrivato il momento di ricominciare da capo, e ricominciare da lì.

lunedì 31 ottobre 2011

gargoyles

visto che in questa casa, tra alberi di natale nani sarcastici, bastoni della pioggia riflessivi, gerani in crisi esistenziale, fragoline imperialiste e divinità egizie che passeggiano in corridoio, mancava solo qualche gargoyle, gatto ha deciso di colmare la lacuna. il suo nuovo hobby è posizionarsi sul bracciolo del divano, impietrito, e dominare il panorama sotto di sé (per “sotto di sé”, si intende la sessantina di centimetri che separano il bracciolo dal pavimento). poi, come vuole tradizione, di notte si risveglia e impazza ovunque, ma questo lo faceva anche prima.
per bandini che si è appassionato alla vita sul balcone: gerundio presente ha subito la seconda potatura radicale causa parassiti ma resiste; la bella di notte è sempre più vivace e sicura di sé (saranno i tempi); ho del tutto involontariamente ucciso due piante di fragoline, una l’ho regalata, me ne restano altre due, che al momento fanno le vaghe: credo che i piani di conquista dell’universo siano rimandati a primavera. ah, parallel universe, il peperoncino, è morto, ma era nell’ordine delle cose, è una pianta stagionale. il funerale non verrà trasmesso in streaming, per evitare ondate di emotività fuori controllo da parte di erbe aromatiche varie che non l’avevano mai conosciuto e nemmeno sapevano chi fosse.
io, sono tre giorni che devo lavare i piatti nel lavandino del bagno, e l’idraulico non verrà fino a mercoledì. stamattina ho seriamente preso in considerazione l’idea di risolvere il problema della pulitura degli ortaggi facendo la doccia insieme alla lattuga.
stavo ripensando a un brano di j.k.jerome, in cui descrive la perfetta scena di un suo amico che interviene in una situazione un po’ caotica ma tutto sommato sotto controllo, per “fargli vedere lui come si fa”.
fino a sabato io avevo una delle due vasche del lavandino che scaricava male l’acqua, e l’altra che funzionava perfettamente. poi è arrivata una vicina di casa con uno sturalavandini e la frase “ti faccio vedere io come si fa”. da allora, aspetto l’idraulico e lavo le pentole in bagno.
prima considerazione: mai intervenire su un lavandino di sabato, e tanto più in un sabato di ponte: a meno che non siate voi stessi idraulici, siete fregati per minimo cinque giorni.
seconda considerazione: in ogni quartiere c’è almeno un dobermann. pensavo li tenessero per i ladri. errore. li tengono per i vicini di casa che sanno loro come si fa.
terza considerazione: la gente che sa lei come si fa, lo sa sempre sui tubi altrui, mai sui propri. e se ha qualche problema, chiama subito l’idraulico.

giovedì 20 ottobre 2011

si spegne la candela

del genio dell’ascensore che ti dice ti chiamo fra stasera e domattina e 24 ore dopo stai ancora lì ad aspettare e a chiederti se niente niente è affogato.
di quelli che, sorpresona, a roma in autunno piove, stato di calamità, che chi avrebbe potuto mai immaginare.
di chi ha fatto le fogne e di chi le dovrebbe gestire che alle sei di mattina sei svegliata dal rumore dello scarico del lavandino in cucina che siccome diluvia sta eruttando aria acqua e rifiuti assortiti.
della tua amica bloccata sul raccordo da tre ore che inizi a pensare di portarle una coperta e un panino; l’acqua magari no.
di quello con cui vorresti tanto lavorare ma che con tutte le proposte che potevi fargli sei andata a colpo sicuro su un argomento su cui ha appena rimediato una buca.
dei protagonisti della suddetta buca che fino a stamattina ti stavano tanto simpatici e ora ti auguri che ogni loro scarico in cucina in bagno e in ogni dove funzioni molto peggio del tuo.
dei pomeriggi di down che l’unica è tirare il fiato farsi un tè caldo guardarsi un film e menomale che hai una buona scorta di sigarette.
dei blog usati per lamentarsi, così non ti lamenti fuori.

giovedì 15 settembre 2011

incipit

le porte dell’ascensore si chiudono.
quando mi ha fissato il colloquio non gli ho mica specificato che soffro di claustrofobia. pensavo, arrivo, salgo le scale, suono, la segretaria mi introduce nel suo ufficio. non pensavo, lo incrocio fuori dal palazzo, ci presentiamo, entriamo insieme, chiama l’ascensore, mi tocca entrarci, è pure l’ascensore più lento del pianeta.
sono chiuse. sono chiusa. e pretende anche di parlarmi.
metà del mio cervello sta esclamando, ehi, è lui, è il genio, stai a mezzo metro dal genio, stai parlando col genio, se allunghi un dito puoi toccarlo (tieni le mani a posto).
l’altra metà del mio cervello sta mugolando, sono chiusa in un ascensore.
un neurone frenetico e disperato sta cercando di rispondere alle sue domande.
la proiezione di me stessa, quella che è stabilmente posizionata da qualche parte in alto a destra rispetto a me e mi osserva e mi giudica, è appoggiata alla parete dell’ascensore, rilassata, a braccia conserte, e sta commentando, gli hai appena risposto citando una frase di una canzone degli afterhours, vedi un po’ te.
è iniziata così. anche se no: è iniziato tutto nove anni fa. 

domenica 11 settembre 2011

fragoline, ultima frontiera

la pianta di fragoline è imperialista. si è lanciata alla conquista del terrazzo. produce degli inquietanti tentacoli rossi che puntano dritti verso qualsiasi cosa contenga un po’ di terra, mettono radici, fanno un’altra pianta e poi proseguono alla scoperta dell’universo, per arrivare là, dove nessuna pianta di fragoline era mai giunta prima. ora un tentacolo si sta dirigendo verso il geranio, gerundio presente, che è ovviamente terrorizzato. domani comprerò un po’ di vasi e li sistemerò intorno a quello di frau fragola; è giunto il momento di applicare delle tattiche di blocco, o, visto che kennedy va sempre di moda, di quarantena. 
nel frattempo l’aloe e l’alberello socievole hanno deciso per il coming out e vivono abbracciati; una scena che presumo mai e poi mai verrebbe trasmessa da certe reti televisive molto avanti. così avanti che stanno facendo il giro completo e stanno tornando al punto di partenza. 
le altre piante invitano gli amici, per cui ormai sulla ringhiera mi ritrovo i rampicanti di quelli del piano di sotto, di quelli accanto, di chiunque. ogni tanto guardo il terrazzo e mi vengono in mente i documentari su come sarebbe il pianeta se questa inutile specie di parassiti che lo abita finalmente si estinguesse. poi mi viene un dubbio. poi penso ad altro.

domenica 28 agosto 2011

Δεν ελπίζω τίποτα, δεν φοβάμαι τίποτα, είμαι λεύτερος. (Νίκος Καζαντζάκης)

pianta di fragoline ha fatto la sua prima fragolina. da seme di bella di notte è spuntato il germoglio. gerundio presente ha i parassiti. i gerani mi faranno impazzire.
tra una settimana devo ricominciare una nuova vita. quando mi viene paura, ripenso a come mi sono sentita quando ho realizzato che non avevo più niente. bene. mi sono sentita bene.
anche se ancora temo e ancora spero, e quella scritta lì ce l’ho su una maglietta che ho comprato in grecia a 18 anni, e cercavo di parlare con la madre del proprietario del negozio in greco antico, e ovviamente non capivamo niente. e mesi fa su un autobus una liceale ha detto alla sua amica che doveva studiarlo bene l’ottativo, perché altrimenti un giorno, da grande, se ne sarebbe pentita.
mi sentirei di dire, ma anche no. ma in effetti io non sono grande, e quindi.

martedì 5 luglio 2011

geraniando

dopo la prematura scomparsa di presente, passato e futuro, avevo deciso di lasciar perdere i gerani, almeno per un po’. poi qualche giorno fa un’amica ha suonato alla porta, tenendo in braccio un vaso con un geranio. io ho guardato il geranio e ho pensato, oh oh. il geranio ha guardato me e ha pensato, oh oh.
le prime ore insieme le abbiamo passate in silenzio. poi abbiamo stappato una birra (io ho stappato la birra, lui guardava) e abbiamo affrontato il tema del nome. gli ho detto, se lui era d’accordo, che secondo me era un gerundio. gli ho chiesto se si sentisse più un gerundio presente o un gerundio passato. abbiamo riflettuto sulle implicazioni dell’essere un geraniando o un avendo geraniato, sullo spirito dei tempi e sull’evolversi delle nostre sorti, e poi, non senza un certo qual senso di sfida verso ciò che stava capitando nelle rispettive vite, abbiamo optato per il presente.
gerundio presente per i primi giorni ha protestato vivacemente contro l’essere stato estirpato e ripiantato, tramite una disperante sequela di foglie secche e aria smunta. ora sembra aver trovato un suo equilibrio. io continuo a stappare birre. la mia amica ieri mi ha portato una pianta di fragole selvatiche. la pianta di fragole selvatiche, non essendo un geranio, si chiamerà pianta di fragole selvatiche. lei è d’accordo.
poi poco fa ho ricevuto una telefonata e la mia vita si è lanciata di colpo su una nuova incasinatissima strada. perché la vita fa di queste cose, mentre te ne stai in terrazzo a bere birra scura e chiacchierare con le piante. gerundio presente dice che è tutto merito suo.

giovedì 30 giugno 2011

fote

lui sulle scale che le sorride quando la vede uscire, e le dice, allora funziona, ti stavo chiamando con la telepatia.
lui sul marciapiede con un sorriso tirato, di qualcosa che si sta infrangendo, una piccolissima crepa inarrestabile.
lui di spalle con quel cappotto strano, un po’ curvo in avanti, mentre cammina verso l’uscita del parco senza voltarsi.
e anche questo album lo si chiude e lo si mette via.

venerdì 27 maggio 2011

an’ it ain’t no use to sit and wonder why

e altre volte semplicemente si scrive per parlare con chi non si può. come gli spazi vuoti che si susseguono negli anni e la vita scorre e sono sempre di più, e vengono riempiti da un dio anubi in corridoio, da un elefantino viola che gioca a carte con un cuscino, da una poltrona verde che chiacchiera con un bastone della pioggia, da un albero di natale nano che lo sa e ti guarda sarcastico.
ed è lo stesso, lo stesso spazio lasciato vuoto, lo stesso silenzio che si copre raccontando magari che ci si sveglia e si sale su una diligenza e si attraversa il far west e poi ci si inoltra nelle miniere sotto terra e poi si risale e cammina cammina si incontra la strega di biancaneve e l’epopea dei divani e tutto il resto, tutto un post o un racconto o quello che vuoi che è semplice vita trascritta in codice, e il codice serve solo perché a parlarne, noi, di quello che succede, dei racconti deldìo, dei pasticci, dei divani, a parlarne, noi, ci saremmo divertiti. ma noi non parliamo più.

mercoledì 27 aprile 2011

aspirina mon amour

domenica un’entità di probabile origine extraterrestre (ufi) si è infiltrata dentro la mia testa, e poi ha passato tre giorni a picconarmi il cranio dall’interno. oggi mi sento molto meglio, riesco addirittura a stare davanti al computer per dieci minuti consecutivi senza quella singolare sensazione di espulsione del cervello attraverso i pori del cuoio capelluto (ok, non è una bella immagine; ma quella che avevo visualizzato prima, su orbite e tappi di champagne, era peggio).
per festeggiare il fatto che riesco a stare in piedi e addirittura muovere qualche passo senza vomitare, sono uscita e sono andata dalla pecora-drago. che non c’era. al suo posto ho trovato quattro leoni bianchi, una manciata di galline e un cartello con su scritto, avevi detto che d’ora in poi te la saresti cavata da sola. ho scritto sotto, hai presente il finale di quella striscia dei peanuts in cui lucy van pelt dichiara al mondo, io sono mia? ecco.
poi, mentre strisciavo attraverso il parchetto dello spaccio per rinnovare le scorte di yogurt al limone e aspirina, mi sono trovata davanti lo spirito di tochiro oyama. gli ho chiesto la sua opinione riguardo quella faccenda dello stare seduti sulla riva del fiume aspettando che passi il cadavere del proprio nemico. mi ha detto che innanzitutto è un ambiente un po’ umido; che il problema non sono tanto i cadaveri che hai di fronte quanto i vivi che hai alle spalle; e che almeno, se proprio non ho niente di più interessante da fare, mi conviene preparare una buona scorta di sake. ho chiesto se il whisky va bene uguale. comunque, ho deciso che è meglio se mi siedo sulla riva del mare, senza aspettare alcunché.

mercoledì 13 aprile 2011

alba. amici comuni recensiscon sconfitte.

alle sei di mattina c’è già luce, nonostante il cielo sia coperto. tira vento. preparo il caffè, guardo fuori dalla finestra. il giovane ulivo che cresce davanti casa mia agita i rami sottili col vento. sembra stia facendo la ola. poi lo osservo meglio; in realtà, sembra stia ballando ymca.
mi sento ancora addosso, in bocca, nello stomaco, il pranzo di ieri. mi spremo un limone. ho un atteggiamento nei confronti dei limoni (sotto forma di yogurt, di alcool, di spremuta pura senza zucchero, soprattutto) che tende a far rabbrividire gli umani. bevo il mio limone spremuto, davanti alla finestra. se non si riesce a disinfettarsi il cuore, almeno si può fare un tentativo con il colon. guardo il vaso dei gerani. passato è stato sconfitto da un parassita, futuro dall’ultima gelata. esattamente come me.
mi telefona la mia amica. in questi giorni mi chiama in continuazione, per controllarmi. la settimana scorsa mi ha telefonato a mezzanotte, per sapere se dormivo. poi mi ha tenuta al telefono per due ore. in effetti, alla fine avevo sonno.
mi chiede, come va. le dico, l’ulivo davanti alla mia finestra sta ballando ymca. siamo a posto, commenta. siamo a posto. sì.

domenica 10 aprile 2011

pavimenti demoliti

ieri sono uscita e sono andata a piazza esedra; piazza della repubblica, per i non romani. ho sfilato con la manifestazione dei precari, da neodisoccupata (per scelta) ex precaria (per scelta di altri), vicino al camion che apriva il corteo. ho ascoltato discorsi sulla cultura, sui giovani, su tutto ciò che dovrebbe essere la base del futuro e invece è lo zerbino del passato. a un certo punto il camion si è fermato per qualche minuto ed io, per evitare la compressione, mi sono infilata nella rientranza del portone di un palazzo. sul portone c’era un foglio attaccato con lo scotch, con una scritta a penna. pavimenti demoliti. prestare la massima attenzione. ho guardato dentro, nell’androne. in effetti non c’era più il pavimento, solo calcinacci. poi ho guardato verso il corteo.
al colosseo, sotto il palco, ho incontrato un collega. mi ha chiesto, dov’è lui? ho fatto un cenno verso la folla, ho detto sorridendo, disperso. vero, disperso, disperso nella folla, ma non lì, e non in quel momento. mi sono allontanata dal collega per evitare altre domande, e dopo pochi metri ho incontrato un amico del disperso. ecco, perfetto. sorrisi, baci, l’imbarazzo di argomenti da evitare. ci salutiamo. decido che ne ho abbastanza di dispersioni, è meglio se me ne vado. torno indietro verso piazza del colosseo, evito il passaggio chiuso verso i fori imperiali, salgo le scalette e sfilo solitaria per colle oppio. pavimenti demoliti. continuo a pensare a quel foglio sul portone. di tutti gli slogan ascoltati, di tutti gli striscioni e i volantini letti, di tutti gli articoli e le opinioni e le analisi, a me resta questo, pavimenti demoliti. la scritta migliore, la più incisiva, il senso definitivo, di tutta la manifestazione.
pavimenti demoliti. esattamente questo.

giovedì 7 aprile 2011

goodbye my friend

sembrano il disegno della retta tangente una circonferenza. perché il tavolino, rotondo, è lì accanto, ma loro hanno sistemato le due sedie da una parte, uno di fronte all’altra. e si stanno vedendo per l’ultima volta e lo sanno, e lo sanno che tutto quello che c’è da dire è adesso, perché non ci sarà un poi.
ma non ce la si può fare, in una, due, tre ore, a chiudere i conti di tanto tempo e tanto amore, tanta distruzione e tanto tradimento. e accennano e sfuggono, e sanno che non possono risolvere e non c’è niente da fare, e poi c’è solo silenzio, e restano uno davanti all’altra, zitti, senza guardarsi se non di sfuggita, senza parlarsi perché vai a trovarle, parole che in tutto questo abbiano un senso.
e poi si sente, scusi?, scusi? e all’inizio la ignorano. ma lei insiste, scusi, ha una sigaretta. e la donna si volta in silenzio, e guarda quasi sconcertata questa tizia che si sta intromettendo con tanta leggerezza. e le vorrebbe parlare, dirle almeno un sì, prego, ma mica ce la fa a farsi uscire una parola, la guarda in silenzio e le allunga il pacchetto e l’accendino, e la tizia forse a quel punto vede e capisce, che proprio non era il caso, ma resta intrappolata lì con loro, in quella loro gabbia che per alcuni istanti sta imprigionando anche lei. e accende la sigaretta con movimenti nervosi, perché adesso vorrebbe proprio sparire, e poi ringrazia e si allontana, e lei a quel punto recupera tutto quello che può racimolare di sé e mormora, prego. e tornano uno di fronte all’altra e per un attimo sorridono, perché fa davvero un po’ ridere la tizia, la sigaretta, l’imbarazzo, la pessima scelta del tempo e dello spazio e delle persone. è stato buffo. e quindi fanno, contemporaneamente, l’ultimo sorriso. ed è peggio.
perché poi alla fine è questo il senso del perdere una persona. che resta uno spazio vuoto, che non sarà mai più riempito da un sorriso sfuggito a entrambi per qualcosa di buffo, buffo nonostante tutto, nonostante in quello che sta succedendo non ci sia nulla di divertente. che insieme, di tutto, non si sorriderà più.

lunedì 28 marzo 2011

primavera

è uno strano inizio di primavera. come lo ha definito penelope1, uno strano periodo, in cui c’è chi viene e c’è chi va. non che le persone non lo facciano sempre, di andare e venire, ma pare che in questi giorni nessuno riesca a stare fermo. così ci sono persone che sono andate via, qualcuno in modo alquanto drastico, e altre che sono arrivate, ma gli arrivi non sembrano mai definitivi quanto le partenze, e altre che invece stanno tornando, e non si capisce ancora bene in che posizione poi si fermerà il tragitto.
per dire, se n’è andato anche il decimo dottore, nelle repliche di doctor who, ed è arrivato l’undicesimo. che a me non piace. il decimo era perfetto. david tennant è in assoluto il mio doctor who preferito, che si sappia.
io ho lasciato definitivamente un lavoro, e siccome so che le chiusure definitive sono faticosissime, e la fatica tanto vale accorparla e smaltirla tutta insieme, già che c’ero ho lasciato definitivamente anche qualcos’altro. per quanto io abbia smesso da un po’ di fidarmi dell’avverbio “definitivamente”, che è alquanto incerto sul suo reale significato, e chi è incerto su se stesso poi provoca e porta incertezza anche intorno a sé, stavolta ritengo possibile che abbia un senso.
così stamattina invece di uscire ho disdetto un appuntamento, sono andata in camera da letto, dove non entravo da un po’ (negli ultimi giorni ho messo un materasso sul pavimento in soggiorno e ho dormito lì), mi sono seduta per terra e ho pianto. per quasi un’ora, credo, finché non è arrivato gatto, mi ha abbracciato un ginocchio e mi ha morso. e niente, ho smesso. non è arrivato david tennant a porgermi la mano e a invitarmi a salire sul tardis, me ne farò una ragione. però, mi sarebbe piaciuto. che poi lo so, che il problema principale del decimo dottore è stato questo continuo sentirsi dire “per sempre” (deve avere, con “per sempre”, gli stessi problemi che ho io con “definitivamente”) e invece no, ma io davvero con lui sarei rimasta per sempre.
allora sono tornata in soggiorno, un po’ in imbarazzo, perché è tanto tempo che non sento più il bastone della pioggia e l’albero di natale nano e la poltrona verde e tutti gli altri, ma io lo so che non sono loro che hanno smesso di parlare, sono io che ho smesso di sentirli. e però mi hanno riaccolta, come poi fanno sempre, e mi hanno detto che non c’è problema, che lo sapevano già, che lo sapevo anch’io. che lo avevo già scritto, che ci sarebbe stato un periodo in cui non li avrei ascoltati, ma poi sarebbe finito. e adesso, mentre scrivo, vedo di nuovo la mia ombra, l’ombra delle mie mani, sulla tastiera. prima non c’era. ma anche la mia ombra, come me, ha problemi con “definitivamente”, e quindi, certo che tornava. certo.
allora adesso sbrigo qualche pratica arretrata, di quelle di quando si lascia un lavoro, mail di saluti, nuovi recapiti, amministrazione; poi mi trucco, che sugli occhi gonfi non è un’operazione facile ma nemmeno impossibile, poi esco e vado a salutare. il lavoro. quell’altra cosa che ho lasciato, invece, quell’altro frammento di amore perso per strada, quelle parole usate male ancora una volta, che si sono di nuovo rotte, lì invece non saluto. perché, diceva marlowe, so long, amigo. i won't say goodbye. i said it to you when it meant something. i said it when it was sad, and lonely, and final.

venerdì 11 febbraio 2011

her red box of memories

nella mia vita c’è anche un armadio reale, tangibile, di legno, oltre a quello portatile con cui vado in giro e in cui mi rinchiudo quando serve. che poi a dire il vero ogni tanto mi chiudo pure nell’armadio di legno. comunque, nella parte superiore a sinistra dell’armadio reale c’è una scatola, e in questa scatola ci sono vari oggetti, un libro, qualche indumento, cose così. di recente, per lavoro, ho dovuto tirare fuori il libro. beh, non è stato male. stavo pensando, forse ora potrei lasciarlo fuori. immetterlo di nuovo nel flusso della vita che scorre, tenerlo fuori dalle scatole che conservano bolle di vita che si è interrotta.
poi mi sono chiesta quante scatole di questo tipo ho (al netto degli scatoloni del trasloco che dopo sei anni ancora non ho aperto), e credo che la maggior parte siano nell’armadio intangibile, quello portatile. e quindi io ogni giorno mi porto appresso parecchio pesantissimo casino. e siccome, come sa chiunque abbia fatto un trasloco, gli scatoloni coi libri sono quelli che pesano di più, credo sia un buon momento per togliere qualche libro anche da quegli scatoloni lì.

lunedì 10 gennaio 2011

le creme rinsavite

mica impazziscono. è tutto il contrario. cioè, voglio dire, tecnicamente funziona così.
c’è un composto di base che deve accogliere una certa quantità di un altro ingrediente. nel caso di una crema al mascarpone, per esempio, prima si fa la base di tuorli e zucchero, poi si aggiunge mascarpone. ora, la crema di uova e zucchero è in grado di accogliere una determinata quantità di mascarpone, che è finita, non infinita. se superi quella quantità anche di un solo grammo, si dice che la crema impazzisce. davanti ai tuoi occhi all’improvviso si scinde, si trasforma, ti manda a quel paese. ma non lo fa con astio, rancore, cattiveria. lo fa con calma e sensatezza. semplicemente hai superato il limite, e lei non ci sta più, se ne tira fuori. con suprema indifferenza. potesse, presumo si accenderebbe una sigaretta e ti guarderebbe con tranquillità. perché ora, solo, basta.
a me questo non sembra proprio “impazzire”. anzi.
(lo so che volendo il composto si stabilizza con gli albumi montati a neve. gli albumi montati a neve sono le colonne portanti della maggior parte dei rapporti e delle relazioni e delle situazioni di qualsiasi tipo. ma non funziona sempre, e non funziona per sempre. e soprattutto, se per far riuscire una crema che dovrebbe essere a base di tuorli, zucchero e mascarpone, sei costretto ad attaccarti a secchiate di albumi montati a neve, fidati, c’è qualcosa che non va).