mercoledì 28 dicembre 2011

incipit 3

siamo seduti uno di fronte all’altra e io mi sto chiedendo qui come ci sono arrivata. gli sei affannosamente trotterellata dietro per tre stanze dopo essere schizzata fuori dall’ascensore, sghignazza la proiezione di me stessa, comodamente appoggiata a una parete dell’ufficio. e poi hai rischiato di farti trucidare dalla segretaria.
sospiro. il genio è quel tipo di uomo. quello che, avendo da fare in media per 36 ore al giorno, logicamente accelera. tutto. anche il semplice uscire da un ascensore, entrare in un ufficio, divorare il corridoio, lanciare al volo il cellulare alla segretaria dicendole di mandare una mail a quell’indirizzo scritto lì, riprendere subito il cellulare dichiarando che è scritto piccolo e che lei non ci vede, rilanciare il cellulare a me ordinando: dettaglielo tu che sei giovane e lo leggi, voltare le spalle nell’esatto momento in cui la segretaria, che in effetti avrà solo una decina d’anni più di me, mi rivolge uno sguardo di puro odio e di promettente futura vendetta, mentre io mi dipingo in faccia un’espressione tipo io che c’entro che vuoi da me l’ha detto lui e, ubbidiente, scandisco con tanto di spelling, a voce alta e chiara, sia mai che oltre che cieca sia pure sorda.
e poi lo seguo mentre schizza in una stanza che però non va bene che secondo lui fa freddo, e poi in un’altra stanza ancora che, ecco, siediti. mi siedo. fumi? fumo (e anche se non fumavo, iniziavo adesso). mi guarda. vediamo di capire questa che vuole e cosa posso farne di lei. l’interrogatorio inizia a raffica di mitra, e io cerco di tenere botta, mentre ogni tanto lancio uno sguardo allarmato alla proiezione di me stessa che commenta serafica, beh, se sopravvivi puoi darti ai cento metri.
sono in affanno mentale, adesso. sono abituata ad essere leggermente più veloce delle persone con cui lavoro. ma quest’uomo, perdìo, ha una capacità di elaborazione dati al microsecondo che nemmeno il processore di un computer della nasa. sto ancora a metà della prima frase di una risposta che lui è già schizzato tre discorsi più avanti, e io mi sto perdendo. in pochi secondi ha un’idea chiara del mio curriculum, delle mie potenzialità, della mia personalità, del mio passato e del fatto che, del suo campo, io non so niente. non ho mai lavorato in quell’ambito. nel settore genio, la mia esperienza è zero. e qui lo vedo rallentare per un attimo, sta dubitando. sì, talento ha talento, ma che ci faccio io con questa? qui mi gioco tutto. riprendo fiato, e passo all’attacco io. tiro fuori dalla borsa un altro progetto, oltre a quello che gli ho mandato per mail quando gli ho chiesto il colloquio. questo è ancora abbozzato, ma è tarato su di lui. esiste per affascinarlo, è stato creato appositamente per sedurlo. e poi gli spiego, gli impongo, che io devo lavorare con lui. devo. che sono perfetta per lui. e, ormai calibrata sui suoi ritmi, in due minuti gli rovescio addosso qualche migliaio di parole, forza, disperazione, entusiasmo e ferma, assoluta e inderogabile volontà. io. devo. lavorare. con. lui. gli posso essere utile. davvero. io sono davvero perfetta per te. e lui, placido, risponde, lo so. ho una certa, come dire, telepatia, io. guardo perplessa la proiezione di me stessa. beh, poteva usarla prima di impallinarti con mille domande in tre minuti, la certa telepatia, commenta lei caustica.
e poi il genio mi guarda, e fa la domanda. quella più ovvia. l’unica a cui non posso rispondere. ma tu, perché hai lasciato il tuo lavoro e sei venuta da me? ecco, mi dispiace, ma ora io ti devo mentire. mi conosci solo da pochi minuti, sto cercando disperatamente di farti una buona impressione, come faccio a dirtelo. che sono qui perché tre mesi fa l’universo in cui vivevo è imploso.

venerdì 23 dicembre 2011

la prima classe costa mille lire, la seconda cento, la terza dolore e spavento

un emigrante resta emigrante per tutta la vita. continuerà a emigrare, ogni volta che tornerà a casa, ogni volta che lascerà casa di nuovo, perché il termine casa per lui sarà, nel migliore dei casi, sdoppiato; quando non annullato, privato di senso.
io mi ricordo un senso di sonno e sicurezza e freddo. partivamo col treno notturno, io e i miei nonni e mio cugino. la grande stazione della città in cui si era arrivati come seconda vita era la partenza; la piccola stazione del paese da cui si era partiti era l’arrivo. a due, tre, cinque anni è facile che fai confusione, che non ti è molto chiaro se stai partendo o stai arrivando, se casa la stai lasciando o ci stai tornando. poi, crescendo, scopri, come per moltissime altre cose, che per gli adulti è uguale.
comunque partivamo col notturno e siccome gli emigranti emigrano per sempre, avevamo con noi valigie e ceste e buste e borse e tutto che nemmeno fossimo stati quaranta, e invece eravamo in quattro, a volte solo tre. e siccome la grande stazione della capitale era davvero troppo grande e troppo aperta e troppo asettica e troppo grigia, allora era buio anche quando c’era ancora luce, ed era freddo anche se era estate. però andava bene, perché c’erano tutte quelle valigie e ceste e quindi un’intera vita che veniva con noi, e soprattutto c’era la parlata, che appena arrivati al binario era all’improvviso quella di sempre. funzionava così, che per mesi stavi nella città grande e parlavi la lingua della città grande, e poi una sera ti prendevano, ti portavano nella grande stazione, spostavano le valigie e i pacchi e le ceste sul binario del treno verso giù, e all’improvviso intorno a te si materializzavano decine, centinaia di persone che parlavano la lingua di giù. che era come essere già a casa, perché nella partenza, allora, casa doveva essere quella.
dove stava tutta questa gente nel resto del tempo? vivevano sempre al binario della stazione? non importava, andava bene così. siccome parlavano la lingua giusta, sapevi che si sarebbero comportati nel modo giusto, una volta saliti tutti sul treno. noi non viaggiavamo nei vagoni letto che costavano troppo, noi partivamo di notte ma stavamo sui sedili normali. io un vagone letto, ancora adesso, non l’ho mai visto. e negli scompartimenti normali c’era tutta quella gente che era la gente normale, che era diversa dalla gente della grande città dove avevi vissuto fino a poco prima e dove forse non tornavi, non lo capivi mai se si partiva per un po’ o si partiva per sempre. ma quella era gente normale e quindi aiutava i nonni a caricare tutte le valigie e i pacchi e le ceste e le borse e i nipoti, e poi ti parlavano normalmente, anche quando ti parlavano strano era normale. perché, picciotta, era una parola strana per la nostra provincia dove non si dice picciotta, si dice picciridda, e quindi era una parola strana, ma era lo stesso una parola normale perché sapevi che era il modo di dire di gente uguale, solo un po’ più giù col treno. quelli che scendono dopo dicono picciotto, noi che scendiamo prima diciamo picciriddu. nella città grande dove abbiamo vissuto finora e chissà se ci torniamo, non dicono in nessuno dei due modi, e quello è essere strani davvero.
e il viaggio era lunghissimo, e un po’ dormivo, ma soprattutto mangiavo, che siccome quella era gente normale la prima cosa che si chiedeva era se la picciridda aveva fame e perché non mangiava, o se voleva da bere, o se voleva giocare. e poi volevano sapere se me lo ricordavo il mare, e io lì mi ricordo che mi illuminavo, che, sì, certo che me lo ricordavo, il mare. me lo ricordavo così bene che dopo ore e ore di viaggio, anche se magari fino a un secondo prima stavo dormendo, aprivo gli occhi immediatamente quando sentivo il rumore di villa. perché villa san giovanni era un rumore prima ancora che una vista, e poi diventata un odore, era l’odore del mare che già si sentiva. e non ci spaventava mica tutta quella serie di rumori strazianti del treno che entra a pezzi nel traghetto (draghetto, dicevo io, che poi per tutta l’infanzia non ho mai capito che problema ci fosse a essere mangiati dai draghi nelle favole: il drago ti mangia e tu semplicemente torni a casa), e non ci spaventava mia nonna in ansia che non dovevamo perderci nel draghetto e dovevamo ricordarci la porta e la scala giusta che altrimenti come ci tornavamo sul treno, sul vagone nostro. si saliva e si guardava e quello era il nostro mare, e restavamo sul ponte, e faceva freddo, a quel punto, a quell’ora, davvero, e aspettavamo finché non si vedeva la madonnina dorata del porto di messina, e quando la vedevi eri arrivato. certo, dovevi tornare nella pancia del draghetto e poi il treno aveva tutto un altro pezzo di viaggio da fare, non eri proprio arrivato arrivato, ma anche se non eri proprio arrivato arrivato, eri in qualche modo arrivato davvero.